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Questo articolo è stato pubblicato il 07 marzo 2011 alle ore 06:37.

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Ruby (Reuters)Ruby (Reuters)

Giorni decisivi per dar corpo al "conflitto" rivendicato dai capigruppo della maggioranza nel processo Ruby, ma ancora tutto da inventare. Presupposti e contenuti sono infatti da chiarire e a ciò provvederanno, in settimana, due giunte della Camera, quella per il regolamento e quella per le autorizzazioni a procedere. Entrambe dovranno fornire un parere al presidente della Camera Gianfranco Fini e all'ufficio di presidenza di Montecitorio per decidere se e come sollevare il conflitto di attribuzioni contro i magistrati di Milano.

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Questioni procedurali si intrecciano a questioni di merito in parte inesplorate; ma la vera partita è politica. Anche se una zeppa è arrivata la scorsa settimana dalla Cassazione, con una sentenza che rende più stretta la via imboccata da Silvio Berlusconi e dai suoi colonnelli. La suprema Corte (come anticipato dal Sole-24 ore del 4 marzo) ha infatti detto a chiare lettere che spetta al giudice ordinario la valutazione sulla ministerialità del reato e che nessuna scorrettezza può essergli contestata se – una volta esclusa la natura ministeriale – decide di procedere oltre, senza né trasmettere gli atti al tribunale dei ministri né informare la Camera di appartenenza dell'imputato-ministro.

Di «scorrettezza» (oltre che di «superficialità») hanno invece parlato i capigruppo Pdl, Lega e Responsabili nella lettera a Fini con cui chiedono alla Camera di sollevare il conflitto di attribuzioni contro le toghe milanesi. La Procura e il Gip avrebbero «dolosamente omesso» di trasmettere gli atti al tribunale dei ministri, ignorando quanto «suggerito» dalla Camera con la delibera di rigetto della perquisizione negli uffici di Giuseppe Spinelli, contabile di Berlusconi.

La maggioranza continua a ritenere che il reato di concussione contestato al premier con riferimento all'ormai famosa telefonata in Questura (Ruby «è la nipote di Mubarak») sia stato commesso «nell'esercizio delle funzioni di governo» e «per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante». E poiché i giudici non hanno fatto marcia indietro (con ciò dimostrando anche un «intento persecutorio»), sarebbero "colpevoli" di aver leso le prerogative ministeriali tutelate dalla Costituzione (articolo 96).

Ma è questo ragionamento che cade con la sentenza della Cassazione. La Corte non parla del conflitto e della possibilità che la Camera lo sollevi, ma esclude, in generale, che si possa parlare di «scorrettezza» (e quindi di lesione di una prerogativa parlamentare) perché il giudice non informa il parlamento della decisione di tirare dritto. O perché non ha investito il tribunale dei ministri.

Per la Corte, il giudice non ha l'obbligo - corrispondente a quello del tribunale dei ministri - di «notiziare» la Camera. Non solo. Nella valutazione sulla natura del reato, giudice e Camera non sono sullo stesso piano, ma il primo prevale sulla seconda. Che può rivolgersi alla Consulta se ritiene che il comportamento dell'autorità giudiziaria sia stato lesivo delle prerogative ministeriali, ma non può imporre il proprio, insindacabile, giudizio sulla ministerialità del reato.

Le motivazioni della sentenza si conosceranno tra qualche settimana, ma la «notizia di decisione» potrebbe consentire alla giunta per le autorizzazioni a procedere e a quella per il regolamento di scremare la richiesta della maggioranza da quel surplus politico che rischia di rendere improponibile il conflitto. Gianfranco Fini, insomma, ha la possibilità di riportare il conflitto sui «corretti» binari istituzionali.

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