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Questo articolo è stato pubblicato il 08 marzo 2011 alle ore 07:57.

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Stavolta si fa sul serio. Lampedusa è in stato d'assedio. Il centro di accoglienza tracima tunisini. Ce ne sono dappertutto, quasi 1.700 in poco più di ventiquattrore: non sarà l'esodo biblico paventato dai ministri Frattini e Maroni ma è qualcosa che gli assomiglia terribilmente. Gli avvistamenti si susseguono come in un pronto soccorso dove piovono moribondi.

Prima sei barconi, poi altri otto, l'ultimo con 224 persone a bordo. Che si sommano agli altri dieci arrivati tra domenica notte e lunedì mattina. "Bersagli" chiamano i barconi dei migranti gli uomini della Guardia Costiera che da più di trenta ore pattugliano incessantemente le acque territoriali italiane. Il sindaco Bernardino de Rubeis, ex seminarista cattolico, comincia a dubitare pure della sua fede granitica: «Ma che fa l'Europa? Perché non si muove? Maroni mi ha promesso che intensificherà i voli per portare gli immigranti nei Cara (Centro accoglienza richiedenti asilo, ndr) sparsi per il Sud Italia. Ho paura però che questa volta non basti».

Il pendolo degli sbarchi è sempre soverchiante sui reimbarchi a bordo dei charter noleggiati dal Viminale. È come se tutti i lampedusani lanciassero un segnale di soccorso alla comunità nazionale: il May Day, May Day traspare da ogni affermazione, dagli sguardi con gli occhi sbarrati e la voce concitata. Tra domani e dopo la Croce Rossa dovrebbe montare un ospedale da campo nei pressi del centro di accoglienza. Ormai il panico sta dilagando in quest'isola africana persa nel canale di Sicilia. L'accoglienza e la solidarietà sono belle parole. Per due mesi tutti gli isolani hanno dato prova di sangue freddo. Mugugnavano, d'accordo, ma a denti stretti. Adesso è diverso. La stagione turistica è alle porte. E insieme con gli immigrati disfatti dalla traversata fioccano le disdette.

Antonello Gervasi, albergatore del Nautic, una specie di prua piantata a meno di cento metri dal Molo Favaloro, si fa portavoce della trentina di colleghi che nervosamente telefonano ai tour operator per aggiornare il numero di coloro che hanno scelto mete più tranquille per le vacanze estive: «Così non va, penso l'abbiano capito tutti. Ci vogliono un paio di grandi traghetti sui quali trasbordare gli immigranti che via via arrivano al porto: appena si riempiono dovrebbero salpare alla volta delle coste siciliane. Noi per ora preferiamo non parlare, se dici una parola di troppo tutti a darti addosso al coro di razzista. I lampedusani non sono per nulla razzisti, mi auguro che questa semplice verità sia stata ben compresa da tutti gli italiani».

Gli italiani l'hanno capito. E pure i tunisini saranno dello stesso avviso.
A 150 anni dall'unità d'Italia, questo frammento di piattaforma africana scaraventato al largo del Maghreb meriterebbe una menzione speciale. Dentro il mare di storie collettive che hanno colonizzato la memoria isolana in questi mesi, nessuno si sarebbe aspettato di dover raccontare la vicenda di una quarantenne tedesca di Dusseldorf, Tina Rotcam, saltata su un barcone con 106 tunisini salpato da Djerba con la figlia di otto anni. Il padre, ha raccontato la Rotcam, è un maghrebino violento che forte delle leggi del suo paese voleva sottrarre la bimba alla madre. Diciotto ore di navigazione e Tina e la figlia, bionda con gli occhi azzurri, sono approdate alle 4 di mattina nell'isola delle Pelagie, accolte e rifocillate dai volontari di Save the children.

Erano le uniche con bagaglio: una grande valigia nera più un borsone. Per loro è stata riservata una camera con vista all'hotel Martello, uno degli alberghi a quattro stelle di Lampedusa. Chissà se i connazionali di Tina se ne ricorderanno nel momento di prenotare le prossime vacanze estive.

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