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Questo articolo è stato pubblicato il 09 marzo 2011 alle ore 07:46.

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Si stringe la morsa intorno al regime di Muhammar Gheddafi. O almeno questa è l'intenzione della comunità internazionale. L'Europa ieri si è messa al passo di Stati Uniti e Gran Bretagna varando un nuovo pacchetto di sanzioni, dopo quello entrato in vigore nemmeno una settimana fa, giovedì scorso per l'esattezza. Questa volta nel mirino sono i fondi sovrani e la Banca centrale libica, cioè gli strumenti finanziari con i quali il clan del colonnello ha investito in giro per l'Europa, e l'Italia, utilizzando i proventi di gas e petrolio.

Cinque le società libiche che, salvo improbabili sorprese, da dopodomani vedranno congelate le rispettive partecipazioni nel capitale dei gruppi europei in cui sono presenti. Venerdì, lo stesso giorno in cui a Bruxelles si riunirà in mattinata il vertice straordinario sulla Libia del 27 capi di Governo dell'Unione europea, la decisione comparirà sulla Gazzetta ufficiale Ue e immediatamente dopo diventerà operativa. E non per caso. Se nel frattempo infatti Gheddafi non avrà trovato un accordo per lasciare Tripoli, molto probabilmente il summit europeo, d'intesa con l'Onu, la Nato e gli Stati Uniti deciderà di accompagnare all'assedio economico-finanziario del regime anche quello militare.

Il primo pacchetto Ue di misure punitive ha voluto colpire Gheddafi e altre 25 persone tra familiari ed esponenti del suo sistema di potere con l'embargo totale sulla vendita di armi e equipaggiamenti anti-sommossa, blocco dei beni e divieto di concessioni di visti per i paesi dell'Unione.
Dopo aver non poco esitato per il profondo intreccio di interessi creatosi tra diversi paesi Ue e il dinamismo finanziario degli investitori libici nonché per il timore di alcuni di colpire il paese invece del regime, alla fine l'Europa ieri ha rotto gli indugi.

Oltre alla Libyan Investment Authorithy, meglio conosciuta come il fondo Lia che da solo vale qualcosa come 60 miliardi di dollari, e alla Banca centrale, saranno colpiti la Libyan Foreign Bank, il Libyan Investment African Portfolio, il Libyan Housing Infrastructure Board. Insieme a un nuovo esponente del regime, il ventisettesimo.

Sono tutti nomi di società che, sciorinati così, possono dire poco ma che detengono quote di capitali nel fior fiore delle società europee. In Italia il fondo Lia detiene, per esempio, il 2% di Finmeccanica, l'1% di Eni, il 2,59 di Unicredit che peraltro si ritrova con un altro 4,6% di capitale controllato dalla Banca centrale libica. Ma i fondi del Colonnello hanno pacchetti azionari anche in Fiat e Telecom Italia, nella Juventus come nel gruppo Olcese.
Come in società europee di eccellenza quali la tedesca Siemens nell'industria, la francese Bnp Paribas o l'inglese Standard Chartered nelle banche. E ancora. Controllano il 3% del gruppo Pearson, quello che pubblica il Financial Times, ma hanno lo zampino anche in colossi dell'energia come la Bp e la Royal Duch Shell. In Vodafone. Nella spagnola Repsol. Ma l'elenco non si esaurisce certo qui.

Tra i 27 dell'Unione è stata Malta l'ultimo paese a togliere la riserva sul varo di sanzioni di cui temeva l'effetto boomerang sulla propria economia. Ma una serie di accorgimenti presi alla fine le ha fatto superare le perplessità. Ora il testo del regolamento Ue, se non incontrerà obiezioni nelle capitali dell'Unione, sarà approvato domani a Bruxelles come "punto A" dai ministri della Competitività. Dopo di che entrerà in vigore a partire da venerdì.

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