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Questo articolo è stato pubblicato il 10 marzo 2011 alle ore 17:34.

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Cernòbyl / Pripiat, la Pompei sovieticaCernòbyl / Pripiat, la Pompei sovietica

La città è una "zona di esclusione" dentro alla "zona di esclusione" di Cernobyl. Un'isola nell'isola. È cintata dal reticolato con le guardie e la sbarra. A fianco alla sbarra, il prefabbricato del posto di guardia, dal cui tetto coperto di neve esce un tubo di stufa che erutta fumo nero e densissimo. Ci sono i controlli dei documenti. La sbarra si alza e si entra negli anni 80.

Il vialone centrale, a due corsie larghe ornate di pioppi oggi antichi e spogli per l'inverno che sta finendo, comincia con una croce ortodossa.
Si chiama viale Lenin (sciossè imeni V. I. Lenina), come in ogni città di allora, ed è affiancato dalle grandi case a condominio del periodo sovietico. Dai vetri delle finestre, sfondati dall'incuria dei temporali di un quarto di secolo, sgretolati nei telai delle finestre sbattuti a ogni vento, si intravede la vita interrotta. Le radio, le tv a colori, i letti sfatti, le tappezzerie di poliestere dai colori di gusto impossibile, le cucine con il frigorifero spalancato.

«Abbandonammo Pripiat nel volgere di due ore. Arrivarono i camion dell'armata rossa alle 14 di quella domenica e ci dissero fuori tutti», ricorda Andrei Gluhov. «Il 30% degli abitanti lavoravano in centrale o per costruire la centrale».

Una volta, quando Gluhov era piccolo, Pripiat era un paesino delizioso, con le sue isbe di legno, la chiesetta, i contadini con le camicie ricamate sul colletto, le donne con il fazzolettone sulla testa. Come nei quadri dell'Ottocento. Nel '70 arrivarono gli operai per cominciare a costruire la centrale nucleare due chilometri più in là, lungo il fiume.
E con la costruzione dei reattori 1 e 2 cominciò a nascere la città sovietica. In fondo a viale Lenin si allarga la piazza principale.
C'è il ristorante con l'insegna sul tetto (restoran), la casa della cultura dedicata alla centrale (dom kulturi Energetik) e l'albergone Polìssia con le camere foderate di linoleum.

I negozi con le vetrate sfondate, i casermoni a sedici piani e, sul tetto, il fregio con la falce e martello. Vuoto. Non una persona. D'inverno, ora, nemmeno gli animali.
Alle spalle della casa della cultura, alcuni edifici più in là, c'è il parco giochi, con la ruota panoramica irrugginita e con l'autoscontro coperto di neve, abbandonato come se i ragazzini, i màlcichi, fossero appena scesi dalle automobiline elettriche ridendo con le guance rosse. «Era pieno di bambini, l'età media degli abitanti era 16 anni», dice Gluhov.

Cernobyl, auditorium della centrale.
Sulle scale ci sono le vetrate dipinte con le immagini della scienza, di Prometeo che dona il fuoco all'uomo, del socialismo (una donna che sventola la bandiera rossa), dell'energia atomica (un ingegnere o uno scienziato ha tra le mani il simbolo dell'atomo con le orbite di elettroni).
Il pavimento è di legno lucido e ben intarsiato con motivi geometrici.
La sala grande dell'auditorium ha le file di poltroncine foderate di similpelle rossa.

Igor Ivanovic Gromotkin è il direttore operativo della centrale spenta, laboratorio in cui tutto il mondo nucleare studia soluzioni e tecnologie. È alla sua prima conferenza stampa.
«La trasparenza è il modo migliore per prevenire gli incidenti nucleari», dice. «Sono sicuro che l'industria nucleare vada sviluppata. Oggi ci sono tecnologie nuove, c'è l'esperienza del passato. E c'è la trasparenza delle scelte, condizione fondamentale per avere un'energia per tutti».Ecco, la trasparenza.

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