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Questo articolo è stato pubblicato il 12 marzo 2011 alle ore 09:31.
RAS LANUF - Usare il megafono, qui, non basta. Per farsi ascoltare il mullah guerrigliero deve ricorrere a tutto il fiato che ha nei polmoni. Anche se i fedeli sono a pochi metri davanti a lui, in ginocchio, le armi depositate a terra. In alcuni momenti i boati della battaglia di Ras Lanuf coprono la sua voce. Nessuno dei 200 guerriglieri, però, si scompone. «Cari fratelli – precisa il mullah - sparate solo quando vedete gli aerei o gli obiettivi nemici. Non sprecate le munizioni. E non restate tutti insieme, disperdetevi. Non agite di vostra iniziativa». La "preghiera del fronte" si chiude poi con i soliti slogan: «Combattete per la libertà, per Allah, per i vostri figli e i martiri».
All'urlo di «Dio è grande» centinaia di volontari saltano sui pick-up e si precipitano verso le colonne di fumo. Passato il primo check point di Ras Lanuf, il più grande terminale per l'export di petrolio del Nordafrica, la scena a cui si assiste è quasi apocalittica: il cielo è percorso da traccianti e dai razzi katiuscia, mentre i boati dei mortai si alternano a quelli sparati dalle navi e al rombo dei cannoni dei carri armati. È il terzo giorno del confronto militare più aspro nella guerra di Libia. Si spara via terra, via mare, via aria. Non si riesce a comprendere da dove arrivino i colpi, si vedono solo le colonne di terra e polvere che si alzano in cielo.
Ognuno dei due belligeranti rivendica di aver compiuto progressi. Ma sono le truppe del raìs, in mattinata, ad aver avuto la meglio. Gheddafi aveva promesso di riconquistare i due centri petroliferi in mano agli insorti: Ras Lanuf e Brega. Le sue milizie, più addestrate ed equipaggiate, sono approdate ieri via mare. In un primo tempo gli insorti ripiegano: «In guerra ci sono sempre avanzate e ritirate. Ma avanzeremo di nuovo», ci spiega un comandante in divisa. Le forze di Gheddafi in principio hanno la meglio. Ma quando devono affrontare a distanza ravvicinata l'onda d'urto dei volontari, allora ripiegano. Poche ore dopo, la battaglia infuria nel centro della piccola città. Sempre più volontari accorrono al check point.
Imad Lawani, 22 anni ex camionista, non vuole sentire ragioni «Non so cosa stia accadendo. So solo che andiamo a combattere e a vincere». Lui giura di voler rivendicare il suo compagno caduto sul fronte di Bin Jawad. Al primo boato la contraerea comincia a sparare alla cieca verso il cielo. Una bomba colpisce un edificio abbandonato del check point. È il panico, ognuno cerca un rifugio. «Le nostre forze sono a est ma anche a ovest. Ora i due eserciti sono come due mani che si incrociano», conclude il comandante. I militari che avevano disertato unendosi alla rivolta, finora rimasti in disparte, hanno preso in mano, almeno in parte, la situazione.
È guerra vera, non guerriglia. Mentre ci prepariamo a tornare indietro si avverte un boato assordante. Si leva un'enorme colonna di fumo, densa e nera. È stata colpita una delle cisterne della raffineria davanti a noi, di fronte al check point. In un vano tentativo di confondere l'aviazione, i ribelli danno fuoco a una pila di copertoni. Al fumo si aggiunge il fumo. Verso le 15 la sensazione è che le milizie di Gheddafi abbiano riconquistato di nuovo la città. Ma qui i fronti cambiano rapidamente. La strada che taglia il deserto è una lingua di asfalto ai cui lati ci sono sempre più mezzi carbonizzati. Al di là dei dromedari, che attraversano la corsia con flemma, c'è il nulla. Mezz'ora dopo, i dieci volontari che presidiano il check point di Alghela, sono agitati. Ci mostrano le buche di due bombe appena sganciate a soli 20 metri dalla loro postazione e urlano: «Cosa aspettate a intervenire, dov'è la no-fly zone?»
Il pronto soccorso per i feriti del fronte è ora a Brega. Ritroviamo il giovane e instancabile dottore Said Fathi. «Sono ormai quasi tutti feriti da esplosioni. Difficili da curare», ci spiega. Il volto imbrattato di sangue, Rajab Ai Hammad, 34 anni, racconta di esser stato colpito dalle schegge di una bomba caduta davanti alla moschea di Ras Lanuf: «Colpiscono anche i civili. Siamo rimasti solo in 300». Un pick-up varca il cancello della clinica; sotto una coperta di lana si intravedono i cadaveri di due combattenti. Si scorge la fronte esangue di un ragazzo che avrà sì e no 18 anni. Tra i volontari accorsi per chiedere notizie dei compagni feriti c'è l'affabile Abdul, uno dei "guerriglieri camerieri" che servivano il caffè all'Hotel al-Fadil di Ras Lanuf. Domenica notte lo staff ci aveva evacuato, chiudendo l'albergo. La mattina successiva i ribelli avevano riaperto con la forza l'hotel, ribattezzandolo "Libia Libera". Al posto dei camerieri in cravatta e camicia bianca della sera prima, nelle grandi sale giravano, smarriti, i giovani volontari a riposo dal fronte. Il mitra a tracolla, la kefiah in testa e un paio di blue jeans, maldestramente tentavano di servire i pochi giornalisti che volevano riposarsi. Abdul si allontana, ma non sorride più. Come se dicesse: la battaglia è molto più dura del previsto.
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