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Questo articolo è stato pubblicato il 17 marzo 2011 alle ore 06:37.

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Il precedente storico è del 15 agosto 1945: per la prima volta in assoluto, i sudditi poterono ascoltare alla radio la voce del loro imperatore, che li esortò a «sopportare l'insopportabile e soffrire il non soffribile», ovvero ad accettare le conseguenze della sconfitta militare e in prospettiva la prima occupazione straniera del paese. Pochi compresero tutto quello che diceva Hirohito nel linguaggio forbito di corte, ma il messaggio principale fu inteso: la guerra era finita e il paese doveva piegarsi di fronte alla potenza distruttiva che aveva cancellato Hiroshima e Nagasaki.

Per la verità, fino all'ultimo alcuni fanatici militaristi cercarono di impossessarsi del disco registrato con l'imperiale discorso della pace per distruggerlo, ma non ci riuscirono e la seconda guerra mondiale finì. Il figlio di quell'imperatore - non più dio, come suo padre, ma sempre circondato da un'aura di rispetto sacrale - ieri ha parlato alla nazione in televisione: ancora una prima assoluta (un video registrato, perché non sia mai che un Signore del Cielo si esponga a parlare in diretta) e anche questa volta l'uscita pubblica senza precedenti ha a che fare con l'energia che si sprigiona dall'atomo.

Il 77enne Akihito ha detto di essere «profondamente preoccupato» per la crisi nucleare che la nazione sta vivendo in aggiunta al dramma di un terremoto «su scala mai vista» e dello tsunami. Nel caso del terremoto di Kobe del 1995, l'imperatore aveva già esercitato un ruolo di pubblico confortatore visitando gli scampati al sisma. Adesso Akihito lo ha fatto rivolgendosi a tutti dagli schermi tv con una esortazione: quella a darsi la mano l'uno l'altro, a mostrare «compassione» e solidarietà per superare queste circostanze difficili.

Che questo sia il momento peggiore per la nazione dai tempi tragici di quel primo discorso radiotrasmesso di un imperatore, lo ha detto lo stesso primo ministro Naoto Kan. Il bilancio ufficiale delle vittime è salito ieri a quasi 13mila tra morti e dispersi. Una triste contabilità destinata ad aumentare ancora, mentre la minaccia della centrale di Fukushima non accenna a diminuire. L'appello imperiale a «prendersi cura l'uno dell'altro» per superare l'emergenza assume un significato profondo in un paese in cui non scattano facilmente impulsi alla solidarietà collettiva: il volontariato nei soccorsi, ad esempio, è un fenomeno limitato, spesso appannaggio di organizzazioni cristiane, in una cultura che istintivamente rifugge dall'invadere la sfera altrui, sia nel chiedere sia nel porgere aiuto.

Il terremoto ha interrotto la produzione e complicato la distribuzione di tutto quanto necessario, dal cibo all'energia ai prodotti manufatti: ci vorranno mesi per tornare a una prima normalità, e - secondo la stima di Abhas Jha della divisione di gestione rischi straordinari della World Bank - almeno 5 anni per la ricostruzione delle regioni più colpite. L'attività economica soffrirà anche nelle aree non direttamente colpite, in quanto carenze di erogazioni energetiche, interruzioni nelle reti di trasporto e problemi nella catena distributiva interferiranno con la produzione. Un costo che per Jha finirà per risultare superiore ai 180-200 miliardi di dollari di cui si parla nelle prime stime. Occorrerà uno sforzo davvero straordinario per venirne fuori. «I giapponesi possono superare il disastro se lavoreranno insieme in uno sforzo collettivo», afferma Richard Koo di Nomura. «I commentatori stranieri hanno espresso sorpresa e rispetto, notando che il numero delle vittime sarebbe stato superiore in qualsiasi altro paese e che la gente ha continuato ad agire in modo ordinato anche nel caos, senza notizie di sciacallaggi o saccheggi».

Particolare significativo: nel centro di Tokyo, dopo il terremoto, non c'era un vetro rotto. Così alti standard tecnologici costruttivi e livelli di civiltà e coscienza civica tanto ammirevoli, conclude Koo, sono caratteristiche nazionali di un paese «in grado di farcela a riprendersi».

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