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Questo articolo è stato pubblicato il 19 marzo 2011 alle ore 09:23.

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MILANO. Dall'iPad alle fotocamere digitali, dai lettori blu-ray alle auto: sono i microchip il cuore "intelligente" made in Japan che ha smesso di pulsare a causa dello tsunami. Con un risultato avvertibile (a valle) anche in Italia, per colpa di una causa rintracciabile (a monte) nel mercato giapponese delle parti elettroniche, stimato in 90 miliardi di dollari, i "mattoncini" che servono per far funzionare le jeep come i tablet.

In queste ore i big dell'elettronica fanno la conta dei danni subìti e provano a rialzarsi. Sony ha chiuso sette impianti nei quali si producevano diodi laser per i lettori blu-ray (gli stessi che sono montati sulla Playstation), ma proprio ieri ha riaperto una linea produttiva di speciali film ottici utilizzati per i televisori lcd, mentre Toshiba ha ancora problemi nella fabbrica di Iwate che produce microprocessori e sensori d'immagini. Colpite anche le major della fotografia, Nikon e Canon, negli stabilimenti in cui si producono le fotocamere d'alta gamma.

E uno stop per alcune fabbriche è arrivato anche per Panasonic.
Intanto in Italia le insegne della grande distribuzione s'interrogano sulle scorte future di prodotti tecnologici fatti in Giappone, principalmente fotocamere digitali e obiettivi, «anche se gli effetti del sisma giapponese potrebbero riflettersi sui banconi solo fra un paio di mesi», spiega Roberto Cuccaroni, direttore generale di Euronics. «Nella gran parte dei casi, salvo sviluppi al momento imprevisti, gli stop produttivi dureranno da qualche settimana ad almeno un mese – racconta Roberto Omati, direttore commerciale di Expert Italy –; ciò nonostante il fabbisogno europeo potrebbe subire relativamente pochi effetti negativi se si considerano le giacenze, le spedizioni avvenute prima degli eventi e persino i trend di vendita non positivi nei primi mesi dell'anno». Maurizio Motta, direttore generale di Mediamarket, in una lettera spedita ai dipendenti, ha invece puntato sulla necessità sostenere «clienti storici come Canon, Nikon, Sony e Panasonic, supportando i loro prodotti e mostrandoli nei punti vendita oggi come ieri».

Passando invece all'auto, la situazione del settore vede le sospensioni temporanee della produzione estendersi dal Giappone ai costruttori stranieri che utilizzano i componenti elettronici in arrivo dal paese: ieri Opel ha annunciato la fermata di un impianto in Spagna per il mancato arrivo di un componente elettronico (con una mancata produzione di 2.400 unità, secondo i sindacati); per lo stesso motivo Renault ridurrà del 15-20% la produzione della fabbrica Renault Samsung in Corea. Queste fermate si aggiungono a quelle annunciate dalle case nipponiche: il numero uno Toyota, che produce in patria il 43% circa delle sue auto, terrà gli impianti di assemblaggio fermi almeno fino a martedì. Lo stop durerà fino a mercoledì per la Honda, che nel frattempo ha dato istruzioni ai concessionari negli Usa di non accettare per ora ordini per i modelli prodotti in Giappone: «Non sappiamo quando gli impianti potranno tornare alla piena capacità», ha detto un portavoce. Anche Nissan ha fermato la produzione in tre dei quattro impianti e ha sospeso – secondo fonti di Mosca – i negoziati per aumentare la propria quota nell'azienda russa Autovaz.

Oltre ai danni che alcuni degli impianti nipponici hanno subito per il terremoto, la maggior parte dei problemi riguarda i fornitori di componenti di primo e secondo livello. Il Giappone è uno dei principali fornitori mondiali di componenti elettronici per l'industria dell'auto: secondo uno studio pubblicato ieri d Barclays Capital, solo i primi quattro produttori nipponici di chip (ancora Renesas, Freescale, Toshiba e Fujitsu) pesano per oltre il 20 per cento.

Proprio la struttura del comparto, con vari livelli di fornitura, rende difficile per ora stimare l'impatto di eventuali blocchi o ritardi nelle consegne: «Ci vorranno almeno dieci giorni», ha detto martedì il responsabile acquisti della Bmw, Herbert Diess. Alla Magneti Marelli (gruppo Fiat) non si segnala per ora alcun impatto. L'effetto economico nel medio periodo non dovrebbe essere eccessivo: sempre secondo Barclays, gli stabilimenti europei e americani dispongono di scorte per 6-8 settimane e nel momento in cui i fornitori torneranno a spedire i componenti potrebbero recuperare con spedizioni aeree.

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