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Questo articolo è stato pubblicato il 20 marzo 2011 alle ore 08:11.
Come in Bahrein, anche in Yemen le autorità non sanno più come far fronte alla rabbia: dichiarano lo stato di emergenza e fanno scendere in strada i carri armati. Dopo i 45 morti e i 270 feriti di venerdì a Sanaa, ieri decine di migliaia di persone sono scese in piazza per chiedere le dimissioni del presidente Saleh, al potere da 32 anni. In segno di protesta per i dimostranti uccisi dai cecchini professionisti, appostati sui tetti di edifici governativi nei pressi dell'università, un ministro e due membri del partito di governo hanno dato le dimissioni. Tra questi Nasr Taha Mustafa, direttore dell'agenzia nazionale di stampa, secondo cui «nulla può giustificare l'assassinio di giovani la cui unica colpa era chiedere un cambiamento garantito dall'Islam e dalla costituzione».
La comunità internazionale mette in guardia il presidente Saleh, che nega ogni coinvolgimento nel bagno di sangue di venerdì e dichiara lo stato di emergenza, cercando di mettere a tacere la stampa e di dare una parvenza di legalità al giro di vite nei confronti dei dimostranti. Per 30 giorni le proteste saranno vietate, e i soldati hanno ordine di verificare che i passanti non siano armati. Un'operazione assurda, in un paese dove ogni uomo gira armato più per tradizione che per necessità: con la jambia (pugnale ricurvo) alla cintola e fino a tre anni fa anche con il kalashnikov in spalla, ora fuori legge anche se nelle aree rurali il divieto non è sempre rispettato.
«L'uso eccessivo della forza rischia di far perdere al presidente il sostegno internazionale e in particolare di Washington», osserva Sheila Carapico, docente all'American University del Cairo e autrice del saggio Civil Society in Yemen (Cambridge University Press). «Dopo il massacro di venerdì, il presidente non potrà più mettere a tacere le proteste, se vorrà dialogare con l'opposizione dovrà dichiarare il cessate il fuoco e rispettarlo». Per la studiosa americana i sauditi non saranno «in grado di aiutare Saleh perché gli yemeniti non li considerano dei mediatori onesti ma dei predoni, e questa era la loro opinione ancor prima che Riad mandasse i carri armati in Bahrain».
Intanto, la violenza continua anche nella città portuale di Aden, dove la polizia ha sparato di nuovo sui manifestanti e ci sono stati quattro feriti. Secondo Alessandro Guarino, capomissione di Intersos in Yemen, «il conflitto tra forze governative e movimento separatista al Sud potrebbe provocare lo sfollamento dei tanti che lasciano le città più insicure».
L'emergenza umanitaria sarebbe un ulteriore peso per un paese povero, con un alto tasso di disoccupazione, che già «accoglie 200mila rifugiati (per lo più somali) e un numero crescente di migranti economici dall'Etiopia (30mila nel 2010)». Senza contare, aggiunge Guarino, «che in questi due anni il conflitto tra le autorità e gli Huthi al nord ha provocato lo sfollamento di oltre 300mila yemeniti dalla regione di Sadaa». Se la crisi rischia di esasperare tensioni già esistenti, il presidente Saleh non può trascurare la comunità internazionale, soprattutto alla luce della risoluzione contro Gheddafi e della posizione della Lega Araba che ha avallato l'uso di forze straniere in Libia.
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