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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2011 alle ore 08:14.

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BENGASI - Il 17 febbraio, quando comincia la rivoluzione anti-Gheddafi, Hussam al Marimi, 25 anni, è ancora uno studente di economia all'Università di Bengasi che ha aperto su Facebook una pagina di protesta contro il regime intitolata "Libia tra passato e presente", raccogliendo migliaia di adesioni. È diventato uno dei capi di Tobruk insieme al cugino Mohammad Salah, kalasknikov a tracolla, barba folta da mujaheddin, guardia del corpo del generale Mohammed Alì Younes.


Erano studenti e ora sono guerriglieri. Sono loro già il primo dilemma della coalizione: proteggere i civili, secondo la risoluzione Onu, o aiutare anche gli insorti come i tanti Hussam e Mohammed della Cirenaica? I francesi, che in questa parte della Libia hanno forti interessi petroliferi, sono schierati decisamente per la seconda soluzione: «Sono stati gli aerei francesi a colpire da 400 a 600 miliziani su una colonna di duemila uomini e 500 veicoli che puntava su Bengasi» dichiara Khaled el Sayeh, portavoce dell'esercito rivoluzionario.
E ancora: qual è davvero lo scopo finale e nascosto dell'intervento, se non sbalzare dal potere Gheddafi? Oppure, nel caso non improbabile di uno stallo militare, come verrebbe accettata una divisione tra la Libia di Tripoli e quella dei ribelli? Non c'è da meravigliarsi che la coalizione ha faticato ad accordarsi sul comando Nato delle operazioni: gli obiettivi non sono gli stessi per tutti.


Insieme agli insorti stiamo viaggiando verso Bengasi dove Mohammed e Hussam si uniscono alle colonne destinate sul fronte di Ajdabiya. Sono allegri, quasi euforici: «Quando ripassi da queste parti ti preparo un pranzo di pesce a casa mia», dice Mohammed, che si fa serio però quando comincia a raccontare gli scontri ad Ajdabiya.
La guerriglia della Cirenaica incontra grandi difficoltà a organizzarsi. È una banda di cugini, di clan e tribù, che si trova sulla strada per andare a combattere. È singolare ma significativo che Younes, uno dei generali dei ribelli, abbia tra le sue bodyguard non un militare ma un giovane come Mohammed, un buon cacciatore, dice lui, certo non un soldato di mestiere.

Il Colonnello, nonostante i raid, è all'offensiva in diverse città. Misurata, 200 km a est di Tripoli, è sotto il martellamento dell'artiglieria: testimoni parlano di 40 morti (4 bambini secondo al Jazira), la popolazione è assediata senza luce né acqua. Ma si combatte anche Zintan e ad Ajdabiya dove, a 160 km a sud di Bengasi, potrebbe svolgersi uno degli scontri decisivi. È su questa strada che sono stati colpiti dai caccia le colonne di Gheddafi.

«Se non ci fosse stato l'intervento internazionale qui era un massacro perché stavamo cedendo all'offensiva» conferma Abdelhafidh Ghoka, uno dei capi del Consiglio transitorio nazionale, nel quartier generale di Bengasi affacciato su un fronte mare percorso da manifestanti che sparacchiavano raffiche al vento per darsi coraggio, ignorando l'invito a "risparmiare pallottole". Sabato scorso, dice Ghoka, per difendere la città sono morti in 120 ma senza i raid sarebbero finiti tutti nella morsa del Colonnello. Sono loro invece che hanno fatto centinaia di prigionieri, per noi giornalisti invisibili, tra i lealisti.

Guardando queste bande di ragazzi, gli shebab, con le bandane in fronte impettiti sui pick up che montano le mitragliatrici della contraerea, riesce difficile credere che potrebbero sopravvivere allo scontro con le milizie di Tripoli senza un aiuto esterno. Eppure sono baldanzosi, forse troppo, quasi allegri e mostrano tra loro un grande spirito di solidarietà che ha molte spiegazioni.

Passando vicino ad Al Bayda, capitale della Senussia, la confraternita musulmana alla quale apparteneva anche Omar el Mukhtar, l'eroe della resistenza agli italiani, Mohammed ne approfitta per dare la sua versione della storia libica: «Da noi la legge di Gheddafi e di Tripoli non l'abbiamo mai rispettata, qui i nostri punti di riferimento sono sempre gli Sheikh, gli anziani capi delle tribù, sono loro la legge». Ma questa è anche una vicenda di famiglia: «Mio fratello, Abdul Fattah, nel 1996 fu rapito e ucciso dagli uomini di Gheddafi, aveva 23 anni. Non abbiamo saputo neppure dove hanno gettato il cadavere».

Non è facile afferrare le realtà di un Paese che galleggia sul petrolio e affoga nelle iperboli fallimentari del suo dittatore. Nelle estreme periferie delle città ci sono quartieri, tutti uguali, costruiti sulla sabbia, che dovevano essere gli alloggi per i giovani a prezzo speciale: 50 dollari la mese. Nessuno li ha mai occupati o voluti.

L'assistenzialismo era la spina dorsale della macchina del potere di Gheddafi. E non si ferma ancora. A Tobruk i lealisti, nella roccaforte degli insorti, hanno riaperto in pieno centro l'ufficio dove si pagano gli stipendi elargiti dal Colonnello: i ribelli li hanno presi a fucilate e sequestrato migliaia di schede dei beneficiari. Anche questa è stata la Jamahiriya, la repubblica delle masse che gli shebab vogliono cancellare.

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