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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2011 alle ore 06:38.

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Ironia della sorte. Il mercato beffato dalla forma societaria che ne è la più fedele riproduzione: la public company. Nella partita su Parmalat, il gioco rispetta le regole di mercato, ma non lo coinvolge. Tant'è che l'azionariato diffuso per la seconda seduta consecutiva ha venduto, spingendo in Borsa il titolo a ribasso di oltre il 7% ricacciandolo a 2,29 euro.
I fondi Zenit, Skagen e MacKenzie, pura razza finanziaria sebbene con prospettive a lungo termine, hanno venduto il loro 15,3% a chi non ha esitato a staccare un assegno da 744 milioni, riconoscendo per il loro pacchetto 2,8 euro per azione: Lactalis, un gruppo familiare così restìo alle logiche di mercato da non pubblicare più un bilancio dal lontano 2001. I francesi sono così arrivati al 29% che si erano prefissi come obiettivo per salire sulla plancia di comando di Parmalat senza fare l'Opa. Hanno inoltrato la loro offerta nella notte tra lunedì e martedì e all'alba di ieri hanno chiuso con un acquisto senza condizioni: dunque la vendita dei tre fondi è irrevocabile.
Nel presentare la lista per il rinnovo del cda alla prossima assemblea del 14 aprile, i tre fondi-pattisti avevano detto di voler promuovere lo sviluppo di Collecchio, con l'utilizzo della cassa – un tesoretto da 1,5 miliardi – per acquisizioni che, nei progetti del candidato pro-tempore alla posizione di amministratore delegato, Massimo Rossi, doveva portare Parmalat nella rosa dei primi gruppi europei del settore alimentare. Avevano poi anche fatto filtrare che, a parità d'offerte sarebbero stati più contenti di cedere le loro azioni a mani italiane. Ma, a parte i contatti presi da Intesa Sanpaolo – l'unico azionista italiano ad aver presentato una lista per il board ricandidando l'ad uscente, nonchè commissario della procedura concorsuale, Enrico Bondi – le offerte tricolore non si sono materializzate. Così, davanti alla prospettiva di un intervento legislativo da Roma per sbarrare il passo allo straniero e al rischio di restare col cerino in mano, i tre fondi esteri hanno abbandonato il campo ritirando anche la loro lista di consiglieri che, sulla carta, era ancora quella di maggioranza.
Ora, la partita potrebbe non essere finita qui. A rimettere in gioco la "cordata" italiana potrebbe essere la politica con l'intervento legislativo a difesa delle aziende di interesse nazionale. Il ministro per lo Sviluppo economico, Paolo Romani, ancora ieri auspicava un'iniziativa tricolore. Nonostante le ultime evoluzioni della vicenda, Ferrero – l'unico gruppo ad aver mostrato qualche disponibilità a esaminare un dossier che in passato aveva già accantonato – ha ribadito di essere ancora interessato «se matureranno le condizioni che lo rendono possibile» a «un progetto industriale di lungo periodo di stampo italiano», cui guarda con «simpatia». In sostanza, il gruppo di Alba si sarebbe già fatto avanti concretamente con Lactalis. L'ipotesi di una Telco del latte, con Lactalis nella posizione di Telefonica – partner industriale, ma con poteri di minoranza – non sembra essere una strada destinata a decollare. Piuttosto Ferrero, a quanto risulta, avrebbe posto condizioni nette: o noi o i francesi. Ma senza Opa, a quanto pare.
I casi strani della vita vogliono che ad assistere sotto il profilo legale Lactalis sia stato lo studio di Carlo D'Urso, storico avvocato di Mediobanca. E invece che ad assistere Ferrero, sotto il profilo della consulenza finanziaria, se l'operazione andrà avanti sarà proprio l'istituto di Piazzetta Cuccia.
Resta il fatto che il tempo stringe. Col 29% i francesi hanno i numeri per esprimere nove consiglieri su 11. Lactalis ha un genuino interesse industriale nei confronti del concorrente di Collecchio, perchè in Italia è già presente con i marchi Galbani, Invernizzi, Locatelli, Cademartori e Vallelata, che comprano latte italiano per il 60% delle loro esigenze produttive quando il 50% è d'importazione. Avrebbe voluto anche presentarsi con Bondi in lista, ma l'apertura mostratagli fin dall'inizio non è ricambiata, perchè l'ad uscente ha fatto sapere che non è disponibile ad alcun ruolo se Lactalis conquisterà il board.
Se comunque i francesi riusciranno a spuntarla, è logico ipotizzare che possano ancora fare ricorso alla finanza per ripagarsi l'operazione. Promuovendo un'acquisizione, come si auguravano i fondi: quella delle sue attività italiane, ex Galbani, che nel 2009 fatturavano 1,28 miliardi (meno di un terzo del giro d'affari di Parmalat), ma erano ancora gravate da quasi 900 milioni di debiti eredità del leveraged buy-out precedente. Collecchio, al contrario, ha in cassa liquidità netta per oltre 1,4 miliardi, frutto delle azioni legali, per più della metà alimentata dalle transazioni accettate dalle banche italiane.
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LA FOTOGRAFIA
I MARCHI LACTALIS IN ITALIA

L'acquisizione di Galbani
La Galbani, fondata nel 1882,
è di Lactalis dal 2006
La mozzarella francese
Fra i marchi di Lactalis
anche l'«italiana» Vallelata
La conquista di Invernizzi
Il gruppo fondato nel 1908
fa parte di Lactalis dal 2003
L'acquisto di Cademartori
Il gruppo fondato nel 1882
fa parte di Lactalis dal 2005

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