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Questo articolo è stato pubblicato il 24 marzo 2011 alle ore 18:49.

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A dieci giorni dal terremoto e dallo tsunami (con contorno di gravissimi problemi nella centrale nucleare di Fukushima) che hanno lasciato tumefatto un pur dignitosissimo e combattivo Giappone, è ancora difficile valutare esattamente il contraccolpo che a breve e medio termine avvertono e avvertiranno le industrie di tutto il mondo che utilizzano pezzi e materiali prodotti nell'arcipelago nipponico. Anche in zone non particolarmente colpite dal sisma e dallo tsunami le aziende giapponesi che tentano di riavviare i loro stabilimenti devono fronteggiare problemi legati alla fornitura di energia, alla carenza di acqua, a una rete di trasporti danneggiata.

La Toyota, che è il numero uno al mondo nel settore automobilistico e produce quasi la metà dei propri veicoli nelle fabbriche giapponesi, ha annunciato che riavvierà lunedì prossimo le linee nello stabilimento di Tsutsumi, in cui si costruiscono tre modelli ibridi, la Prius, la Lexus Hs250h e la Lexus CT200h. Si calcola che lo stop alla produzione seguito al terremoto sia costato alla Toyota la mancata fabbricazione di 140.000 veicoli. E il lancio, originariamente previsto per fine aprile, di due nuovi modelli della linea Prius, una station wagon e un minivan, è stato rinviato. La Honda ha invece fatto sapere che la produzione delle sue auto non ripartirà prima del 3 aprile, mentre già lunedì prossimo riavvierà lo stabilimento di Kumamoto, in cui si costruiscono le due ruote della casa giapponese.

Ma, al di là delle fabbriche poste sul suolo giapponese, i problemi generati dal cataclisma nel Pacifico si ripercuotono anche altrove. Infatti molte parti di auto prodotte in Europa e negli Stati Uniti arrivano dal Giappone e, una volta esaurite le eventuali scorte, sarà difficile procurarsene altre a breve. Per questo motivo, ad esempio, la Volvo sta finendo i pezzi di produzione nipponica che ha già in magazzino per dotare le proprie auto di climatizzatori e navigatori. E la General Motors ha già chiuso per motivi analoghi il proprio stabilimento di Shreveport, in Louisiana, in cui si costruiscono pick-up e lavorano quasi mille persone. Problemi simili vive anche l'industria aeronautica. Basti pensare che due modelli della Boeing dipendono dalle forniture nipponiche: il 35 per cento del 787 e il 20 per cento del 777 è assemblato con componenti made in Japan.

Un altro settore che rischia di assaggiare gli amari frutti produttivi del sisma che ha colpito l'arcipelago asiatico è quello dell'elettronica. In alcuni casi il Giappone produce una parte molto consistente di componenti indispensabili per l'assemblaggio di apparecchi elettronici (ad esempio, il 60 per cento dei wafer di silicio necessari per la produzione dei computer), in altri ha addirittura una posizione praticamente monopolista (arriva dal Giappone circa il 90 per cento della resina BT usata per gli smartphone e i laptop). In conseguenza di ciò, negli ultimi giorni, i prezzi sul mercato di molti tipi di microprocessori sono saliti impetuosamente.

Molti Applemaniacs si sono allarmati davanti alla luttuosa prospettiva che l'IPad2 possa subire dei rallentamenti nei ritmi produttivi. E anche il settore degli apparecchi fotografici digitali vive un momento di difficoltà poiché è strettamente legato a quanto viene prodotto in Giappone. Qualcuno ha notato che gli Stati Uniti si rivelano più dipendenti da Tokyo di quanto si immaginassero (e più di quanto Tokyo sia dipendente da loro). Alcuni analisti cercano però di mitigare il diffondersi del pessimismo e sostengono che i contraccolpi potrebbero non essere poi così gravi. Ma, in ogni caso, quei produttori americani ed europei che sono dipendenti dalle componenti che arrivano principalmente dal Giappone dovranno fare un accorto uso delle scorte, fronteggiare un rialzo dei prezzi e gestire un margine più ristretto di guadagno. Comunque, è ancora difficile capire quanto tempo occorrerà prima che il Giappone possa iniziare a fornire nuovamente al mondo i propri prodotti e a ristabilire forniture energetiche costanti ai propri stabilimenti. Per quanto riguarda i problemi legati ai trasporti, negli ultimi giorni i capitani e gli armatori di alcune navi hanno rinunciato a fare scalo a Tokyo e in altri porti giapponesi per paura di esporre gli equipaggi a eventuali radiazioni provenienti dalla centrale nucleare di Fukushima. Ancora non è quantificabile il numero di imbarcazioni che abbiano fatto questa scelta, ma ad esempio Claus Peter Offen, che è il principale operatore tedesco nel settore navale, ha comunicato a tutta la propria flotta di tenersi alla larga dai porti di Tokyo e Yokohama.

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