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Questo articolo è stato pubblicato il 25 marzo 2011 alle ore 11:54.

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In Giappone ancora un mese di lavoro alla centraleIn Giappone ancora un mese di lavoro alla centrale

È una lotta contro il tempo quella che sta avvenendo alla centrale nucleare di Fukushima Daiichi in Giappone. Dopo il terremoto e lo tsunami dello scorso 11 marzo, i dipendenti dell'impianto nucleare giapponese stanno escogitando tutti i modi possibili per frenare l'incessante flusso di emissioni radioattive nell'aria.

Gli esperti sostengono che quelle di Fukushima siano centrali di seconda generazione, progettate addirittura prima dell'incidente avvenuto a Three Mile Island in Pennsylvania nel 1979, episodio che aveva sollecitato a sviluppare maggiori sistemi di sicurezza.

Quelli di Fukishima sono impianti nei quali, secondo la CNIC (Citizen Nuclear Information Center, la più importante organizzazione anti-nucleare giapponese) sono stati omessi controlli e coperte anomalie (anche la Tokyo Electric Power Company, società giapponese di energia elettrica risulta abbia le sue responsabilità).

Attualmente a livello mondiale sono in via di costruzione 220 reattori nucleari e oltre 324 si trovano in fase di progettazione.

È indiscutibile il fatto che gli impianti nucleari di tutto il mondo siano enormemente dispendiosi.

La vita di un impianto dura in media 25 anni, anche se spesso l'età media viene prolungata di altri dieci-ventanni. Solo le tragedia fanno fare un dietrofront. In Germania la decisione di estendere la durata degli impianti è stata recentemente sospesa a seguito dei fatti accaduti a Fukushima e in tutte le centrali del mondo sono stati attivati ulteriori controlli di sicurezza.

«La verità è che si tende ad allontanare nel tempo i costi di chiusura» dichiara Emilio Del Giudice, ricercatore di fisica teorica dell'Università degli Studi di Milano. «Si resiste fin che funziona, fin quando gli impianti minacciano di avere un "effetto Fukushima" e allora a quel punto interviene lo Stato che per evitare la catastrofe si addossa i costi».

Ma è possibile diminuire le emissioni di CO2, producendo energia senza utilizzare le centrali nucleari?

A che punto è la ricerca sulla fusione a caldo e a freddo, quella che dovrebbe in futuro sostituire le centrali nucleari basate su un sistema a fissione, responsabile dell'emissione di radiazioni?

«Attualmente ci sono due linee principali di ricerca di fusione a caldo», spiega Gianluca Alimonti, ricercatore dell'Infn (Istituto Nazionale Fisica Nucleare) e professore all'Univesità degli Studi di Milano per il "Corso di Fondamenti di Energetica".

«Una avviene tramite confinamento magnetico e viene perseguita dal progetto Iter, che è un prototipo di reattore a fusione nucleare. La sede è a Cadarache in Francia e si tratta di una collaborazione internazionale. La seconda sperimentazione avviene tramite il confinamento inerziale. Si utilizza il reattore NIF. La sede è a Livermore negli Usa».

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