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Questo articolo è stato pubblicato il 26 marzo 2011 alle ore 15:43.

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Manoubia, madre di Mohamed Bouazizi.Manoubia, madre di Mohamed Bouazizi.

«Era un ragazzo sensibile, disperato, pieno di rabbia. Erano mesi che sfogava la sua amarezza, ripeteva che voleva commettere un gesto estremo. E quando si è ucciso, è come se fosse morto uno dei miei figli». Ania racconta la storia di Mohamed Bouazizi proprio davanti all'uscio del suo appartamento, una piccola casa di stucco, bianca, disadorna e sperduta in una polverosa via di Cite Nour, il quartiere più popolare alla periferia di Sidi Bouzid. Le strade sono di terriccio e sabbia.

Nessuno, qui, ha un lavoro e tutti sentono la rivoluzione come qualcosa che deve compiersi, che non è ancora finita. Ania ricorda orgogliosa quel ragazzino che da piccolo gli gironzolava per casa e che ora è un eroe, un simbolo della rivoluzione del Maghreb. «Mohamed voleva finire di prendere il diploma e aveva ripreso anche a studiare mentre tentava di lavorare. Sognava di sposarsi. Ma era troppo povero per realizzare i suoi sogni, e questo lo faceva star male. Non era un mussulmano praticante e come molti ragazzi di questo quartiere non rispettava il Corano alla lettera. Uccidersi per la nostra religione è peccato. Ma dato che il suo gesto è servito a cambiare le cose, noi tutti lo capiamo», spiega Ania accanto alla figlia Samia. Non passa giorno senza che gruppi di persone si radunino sotto la foto di Mohamed, appesa sull'apice di un obelisco. Pochi metri più in là la strada è attraversata dalle strisce pedonali sopra cui Mohamed si è dato fuoco il 17 dicembre del 2010, davanti al Palazzo del Governo.

Sotto al suo volto di ragazzo la gente discute della Tunisia di domani e dei propri diritti e si protesta contro il Governo di transizione perché ancora, ripetono tutti, in queste regioni centrali del Paese, le più povere ed arretrate della Tunisia, ben poco è cambiato dalla caduta del dittatore Ben Alì. Nel quartiere di Cite Nour tutti si conoscono l'un l'altro. Sulla strada davanti al cancello di ferro verniciato di bianco della casa di Mohamed, le due vicine che l'hanno cresciuto, Ania e Samia, raccontano la storia della famiglia Bouazizi, diventata anch'essa un simbolo della rivoluzione.

Durante la nostra visita la madre e la sorella si trovano a Tunisi, accolte dal segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, in visita nella capitale. Ricordano che il piccolo Mohamed Bouazizi a tre anni era rimasto orfano di padre, stroncato da un infarto mentre faceva il manovale in Libia. Mohamed era finito in orfanotrofio e una volta uscito era andato a vivere con la sorella e i suoi sei figli nella casa di Citi Neur. La madre, nel frattempo, si era risposata a uno zio. Il piccolo Basboosa, come tutti lo chiamavano nel quartiere, aveva dovuto interrompere gli studi di scuola superiore per mettersi a lavorare.

Poi un giorno, nel 2009, la Guardia Nazionale gli aveva ritirato la licenza da venditore ambulante. Finché a dicembre un agente, una donna della polizia, durante un controllo gli aveva sottratto prima la bilancia e poi aveva rovesciato il suo carretto di frutta e verdura. Ania racconta che Mohamed era stato anche preso a schiaffi da quell'agente e quando era andato al Palazzo del Governo per protestare, invece di un'udienza aveva ricevuto ancora botte ed umiliazioni. Mezz'ora dopo Mohamed Bouzidi si era dato fuoco nella via principale di Sidi Bouzid, ribattezzata oggi con il suo nome.

Magid è il suo amico di infanzia, anche lui, come tutti i giovani cresciuti fra le poverissime case del quartiere, è senza lavoro. Ci mostra una lettera del 2 novembre 2009, una delle prime in cui il suo amico chiedeva alle autorità di avere indietro la licenza da fruttivendolo, senza mai ricevere risposta.«Qui tutti lo conoscevano e gli volevano bene. Era una persona molto sensibile e leale. Amava gli orfani, gli ricordavano la sua infanzia. Il giorno che si è dato fuoco l'ho accompagnato io all'ospedale di Sousse, dove è morto, il 4 gennaio».

Alla notizia del suo decesso la rivoluzione si è propagata con un'onda d'urto in tutte le regioni centrali del Paese, fino a toccare la capitale e le più evolute città della costa. Ma gli scontri più rabbiosi sono esplosi intorno a Sidi Bouzid. A Kasserine, distante un'ora di pullman, le ferite dei proiettili sono ancora impresse sulle mura della città e sulla pelle dei suoi abitanti. I martiri della rivoluzione lì sono stati 21, il più piccolo è una neonata di sei mesi, rimasta uccisa mentre era fra le braccia della madre in un bagno pubblico. Il primo a cadere sotto il fuoco dei cecchini è stato un ragazzo di 12 anni. Alla memoria dei martiri è dedicato un monumento, un obelisco pagato dalle famiglie con incisi tutti i loro nomi.

Sono tutti ragazzi del quartiere di Cité Ezzouhour. Un distretto povero come quello dove è nato Mohamed Bouazizi. Qui, appresa la notizia della sua morte, la gente si è ritrovata in strada, in dieci, in venti, in cinquanta, fino a diventare un fiume in piena che si è riversato contro le caserme della Guardia Nazionale e la sede del partito di Ben Alì, l'Rcd. Oggi, madri e padri e sorelle mostrano le foto dei figli rimasti uccisi. Su letti di molte case giacciono ancora i feriti da arma da fuoco.

Come Nizar Gribi, un 34enne bloccato da più di due mesi per curare la sua lesione all'addome. Ad accudirlo c'è solo la moglie, che gli alza con attenzione il pigiama per mostrarci il ventre lacerato dei proiettili. «Dopo la rivoluzione il governo di transizione ci ha dato un risarcimento di 3000 dirham (circa 1600 euro). Poi tutti sono scomparsi. Eravamo senza lavoro con Ben Alì, siamo disoccupati anche ora. Speriamo che il sangue versato da mio marito e dai nostri ragazzi non sia caduto invano». Da città come Kasserine l'esodo verso Lampedusa è inarrestabile. Chi può, parte. E il sogno di andarsene è vivo anche fra chi era in prima linea durante la rivoluzione.

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