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Questo articolo è stato pubblicato il 27 marzo 2011 alle ore 18:17.

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Il calcio italiano è arrivato a tanto così dallo sciopero perché i giocatori vogliono, tra le altre cose, essere padroni del proprio destino. E delle loro destinazioni. Lo sport americano è a tanto così dalla serrata perché i proprietari ritengono inaccettabile che il monte stipendi del personale di campo sia vicino al 60% (il 57% nella Nba). Nel nostro calcio siamo alle soglie del 90%. Non tutto il mondo è paese, dunque. Infatti nel basket americano capita, per esempio, che uno che la prossima estate firmerà un contratto da una cinquantina di milioni di dollari, riceva una telefonata dal suo agente: "Ti hanno ceduto: domani presentati a Denver". Il ragazzo non fa una piega: chiude le valige già preparate, si presenta al centro di allenamento dei New York Knicks che lo hanno ceduto e il servizio facility del club gli ha già preparato lo scatolone con i suoi effetti personali. In questo caso dentro non ci sono piantine e fotografie incorniciate, come vediamo in mille film americani, ma sospensori, fasce elastiche, prodotti da spogliatoio.

Fa lo stesso, il senso è esattamente identico: ragazzo, sei fuori, addio senza rancore. Per i rancori, almeno quelli pubblici, lì non c'è spazio: sono solo affari, bellezza, regole del gioco da accettare e basta. Dato che il ragazzo in questione lo conosciamo bene fin da quando era un bimbo che andava a scuola in motorino nella nebbia padana, la faccenda ci stringe un po' il cuore. Che si allarga poi notando che la squadra che ha lasciato è precipitata in un pozzo di sconfitte senza fondo (siamo a sei in fila all'ultimo intertempo), quella in cui è arrivato ha cominciato a vincere e non si ferma più. Allora viene la voglia e il coraggio di chiamarlo.

Danilo Gallinari, hai perso New York e ti hanno sbattuto sulle montagne di Denver, ma hai trovato una squadra…
«Tranquilli, mi trovo molto bene qui. Sono arrivato in una società super. Pazienza se ho perso le mille luci di New York: sono qui per giocare a basket e ho trovato una squadra molto più competitiva. Anche perché a Ovest è più dura che dall'altra parte. La città è diversa, non è più così facile per i miei amici e la mia famiglia fare avanti e indietro come prima. Però la squadra va meglio ed è quello che mi importa».

Da New York a Dever in 48 ore: dai, non dirmi che è stato facile…
«Ma l'Nba, lo sport in America funziona così. Devi sempre essere pronto a prendere le tue quattro cose, a cambiare squadra, città, magari andando in posti peggiori. Io sono stato fortunato ad arrivare in una situazione che in palestra, nel lavoro, è migliore di quella che ho lasciato. Mi è andata benone».

Dimmi di quella telefonata.
«Il mio agente mi ha chiamato alle dieci e mezza della sera dell'ultimo giorno di mercato e mi ha detto: guarda che domani devi essere a Denver. Ho preparato velocemente due borse e la mattina dopo sono andato all'aeroporto».

Arrivi lì, salti su un altro aereo e vai a giocare. Poi scrivi un messaggio su twitter in dialetto lodigiano
«Me se ricordi pù quel che ho scrit (non mi ricordo più quello che ho scritto, ndr)»

Hai scritto: "L'aereo dei Nuggets non è bello come quello dei Knicks, ma l'è bel istes (è bello ugualmente, ndr)"
«Ma spesso scrivo in dialetto, perché fa parte della mia, della nostra cultura. E' un'altra lingua ed è una cosa a cui tengo molto. Mio papà ci ha tenuto molto ad insegnarmelo quando ero piccolo e quindi si continua a parlare in dialetto».

Va beh. L'ultima domanda però te la faccio in italiano e da giornalista a milanista: chi lo vince il derby sabato?
«Lo vince sicuramente l'Inter»

E lo scudetto?
«Pure, al cento per cento»

Ti manderanno anche in giro come una preziosissima pallina da flipper con lo scatolone sotto il braccio, ma sei proprio un italiano, scaramanzia compresa. Ciao Danilo Gallinari, buon viaggio.

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