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Questo articolo è stato pubblicato il 01 aprile 2011 alle ore 09:26.
L'ultima modifica è del 01 aprile 2011 alle ore 09:26.

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Nel cortocircuito politico la bomba di Livorno pessimo segnaleNel cortocircuito politico la bomba di Livorno pessimo segnale

Per il secondo giorno consecutivo il palazzo di Montecitorio ha fatto da sfondo al corto circuito politico-istituzionale in cui sta affondando il dibattito pubblico. Per il secondo giorno si è avvertito un senso di angoscia e di violenza incombente. Una Camera di fatto ingovernabile. Gli insulti in aula, i tafferugli, un oggetto tirato contro il presidente dell'assemblea, una frenesia nevrotica all'interno dell'edificio e fuori in piazza. Alla fine l'unica scelta possibile: il rinvio di qualche giorno del «processo breve».

Nulla per ora che faccia pensare a un ritiro definitivo del provvedimento, tuttavia si avverte un gran bisogno che torni a regnare un minimo di buonsenso. Intanto a Livorno, trecento chilometri da Roma, un pacco-bomba feriva in modo molto grave il capo di stato maggiore della Folgore. Nessun nesso con la paralisi romana, naturalmente. Eppure tutti percepiscono che il segnale è inquietante. Nell'aria si respira quella tensione che più di una volta, in passato, ha preparato il terreno a gesti inconsulti. Ma soprattutto c'è la sensazione di un vuoto politico che non promette nulla di buono.

Il vuoto significa assenza o carenza di «leadership» e rischio di fallimento di una legislatura incartata su se stessa. Qualcuno forse si compiace di questa frattura civile perché ritiene che sia più facile mobilitare l'elettorato e prepararlo agli scontri futuri. Ma l'esperienza insegna che non è mai così. L'eco dell'esplosione di Livorno, ieri pomeriggio, ha riportato tutti alla realtà.

A questo punto si tratta per quanto possibile di evitare nuovi cortocircuiti, impedendo il progressivo sfilacciamento istituzionale. Peraltro la prossima settimana non si annuncia sotto buoni auspici. Martedì la Camera affronterà il conflitto di attribuzione sul «caso Ruby», avendo spostato in coda all'ordine del giorno l'esame del «processo breve» sospeso ieri. Ma è evidente che il peso delle questioni legate in modo diretto o indiretto ai processi di Berlusconi tende ad avvelenare i rapporti parlamentari. Fintanto che continuerà questa corsa a inseguimento un po' affannosa fra le udienze del tribunale milanese e i provvedimenti di legge discussi a Roma, non sarà possibile essere ottimisti.

Ecco perché è significativo il gesto del presidente della Repubblica. Rientrato da poco dagli Stati Uniti, Napolitano ha ricevuto al Quirinale in incontri separati i capigruppo delle forze rappresentate in Parlamento. La forma assomiglia a quella usata per le consultazioni che si svolgono nei periodi di sede vacante, quando il governo è dimissionario. Non è questo il caso, come è ovvio. Ma in un certo senso la situazione è persino peggiore. Il governo è in carica, ma il vuoto politico avanza.

In tempi normali dovrebbe essere il presidente del Consiglio ad assumere un'iniziativa del genere, riunendo i capigruppo: magari anche quelli dell'opposizione. Dovrebbe essere il capo del governo ad attenuare la tensione e a modulare l'attività della maggioranza alle Camere senza finire in un vicolo cieco. Viceversa, nei tempi eccezionali che stiamo vivendo questa funzione essenziale in democrazia è passata nelle mani del presidente della Repubblica. Il quale, sia detto per inciso, ha ricevuto nei giorni scorsi una telefonata di Obama che lo ha ringraziato per quanto l'Italia sta facendo in Libia.

Lo stesso Obama che insieme ai leader di Francia, Inghilterra e Germania ha di fatto escluso il governo italiano dalla gestione politica della crisi nel Mediterraneo. Sempre più spesso il Quirinale si trova, suo malgrado, a interpretare ruoli che spettano al capo dell'esecutivo. E questa è la più drammatica conferma del vuoto in cui ci dibattiamo. Meglio rendersene conto prima che sia troppo tardi.

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