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Questo articolo è stato pubblicato il 02 aprile 2011 alle ore 08:13.

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Se la campagna di Libia non ha ancora una sua sede decisionale ben definita - ondeggiando tra summit superaffollati e videoconferenze molto esclusive - un dato sembra confermato: è ancora a Roma che si trovano i protagonisti dei circuiti paralleli economici e finanziari, quelli che garantiranno un futuro alla Libia del dopo-Gheddafi. Non è chiaro ancora quale sarà l'assetto politico che emergerà al termine di una guerra civile appoggiata da raid "umanitari", ma comunque vada ci sarà da gestire le enormi risorse finanzarie - in Italia spiccano UniCredit ed Eni - riavviare l'industria petrolifera e portare avanti i colossali progetti infrastrutturali.
E proprio a Roma ha appena fatto visita Munib al-Masri, 76 anni portati in scioltezza, di gran lunga il principale imprenditore palestinese, con interessi nelle telecomunicazioni, e nei settori del turismo e delle costruzioni. È uno dei padri nobili della Palestina, amico personale di Yasser Arafat con il quale condivise in prima persona gli accordi Oslo del 1993, ma sempre senza volere cariche per sé, tanto da rifiutare più volte l'offerta di diventare primo ministro. Impegnato in prima persona nel dialogo con Israele attraverso incontri periodici sulla cultura organizzati nella sua spettacolare casa di Nablus che è la riproduzione della Rotonda - la villa che Palladio costruì nel 1556 a Vicenza - è convinto che la soluzione duratura delle tensioni del mondo arabo passi da una pacificazione della sua terra: «La stabilità del Mediterraneo passa dalla pace in Palestina» dice in un incontro con il Sole 24 Ore.
Ma Munib al-Masri - tratti e movenze più da gentiluomo napoletano che da figlio delle pietre arse della West Bank - sa bene che questo è un momento di emergenza per tutta l'area araba, che dal Maghreb arriva fino alla Mezzaluna, e la stabilità della Libia è uno dei elementi fondanti per il futuro. Per questo a Roma - ospite dell'avvocato internazionalista Carlo Carnacini, crocevia di diplomazie parallele - si è mosso anche per fare da "ponte" con le nuove élite libiche che stanno emergendo dalla guerra civile, e che si dovranno muovere tra le pressioni occidentali (soprattutto economiche) e quelle politiche del mondo arabo. E in questo c'è anche la chiara intenzione di aiutare «la cara Italia» ad evitare un potenziale isolamento a cui potrebbe esporsi, viste anche le dinamiche un po' sgangherate della missione "Odissey Dawn".
Eppoi la Palestina, terra in cui è nato e su cui ha creato e investito le sue immense fortune, costruite dopo una laurea negli Stati Uniti. «Oggi dopo oltre sessant'anni c'è la migliore opportunità per fare la pace con Israele» dice senza tentennamenti, «con il primo ministro Netanyahu si può portare in fondo un progetto per far nascere lo Stato palestinese». Ma i problemi da quelle parti sono enormi, a partire dalla spaccatura in campo palestinese tra l'Anp di Abu Mazen e Hamas, che domina Gaza. «I nodi da sciogliere sono molto meno gravi di quanto si pensi, una riconciliazione è a portata di mano, basta trovare uno strumento adeguato: io penso che la soluzione migliore sia creare un Governo formato da personalità indipendenti di alto profilo che in un anno prepari le elezioni interne alla Palestina (le presidenziali sono previste a settembre) e getti le basi per un accordo con Israele. Sarebbe nell'interesse di tutti». A partire dalla prosperità inespressa delle economie e dalla forzata separazione tra la Cisgiordania e Gaza: «Questo distacco costa 1,4 miliardi di dollari all'anno». La Palestina è fatta da un popolo molto giovane e di alta scolarizzazione, «una potenzialità di crescita e di pace, anche per Israele».
Intanto la sua creatura, la conglomerata Padico - nata all'indomani degli accordi di Oslo e quotata alla Borsa di Nablus, altra sua creatura - realizza oltre il 30% del Pil palestinese, ma la situazione rende quasi impossibile un ulteriore sviluppo e tantomeno l'arrivo di investitori stranieri: «Non si può fare business dove ci sono i check point». Insomma, la pace in quei luoghi è la chiave di tutto: «Senza il conflitto in Palestina il mondo arabo sarebbe stato del tutto differente: l'occupazione israeliana ha giustificato lo stato di emergenza in quasi tutti i paesi dell'area, portando avanti per decenni dittature che hanno compresso le società e anche le economie».
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