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Questo articolo è stato pubblicato il 05 aprile 2011 alle ore 09:27.

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Fanno tristezza i campi di calcio trasformati in depositi di bidoni, in parcheggi per macchinari, in bivacchi di manipoli in tuta bianca integrale e maschere da trincea bellica sul muso. Ecco J-Village, il prestigioso centro di training della Lega Calcio giapponese: una Coverciano più grande dove i Blue Samurai di Zaccheroni non potranno più allenarsi. È diventato il centro operativo e logistico per le pericolose attività che cercano di riportare sotto controllo la centrale nucleare di Fukushima.

Il mostro che non si fa domare (Daiichi) è solo a 18 chilometri di distanza, preceduto a 8 chilometri da un altro impianto atomico (Daini): J-Village sta dentro il raggio di 20 chilometri da cui oltre 70mila persone sono state evacuate. Ma in Giappone il concetto di "zona di evacuazione" non è quello di vera esclusione. Si può ancora entrare. Bastano poco più di un paio d'ore dal centro di Tokyo sull'autostrada Joban. All'uscita obbligatoria di Iwaki-Yotsukura, se si fa una inversione a U tornando verso nord, si fa presto a raggiungere l'uscita di Hirono: il casello è deserto e si risparmiano pure 50 euro. Poco più avanti, un posto di blocco di poliziotti in mascherina: «Dove va?». «Al J-Village». «La sconsigliamo, ma se vuole vada pure».
Lo spettacolo del nuovo J-Village cancella il ricordo delle amichevoli della nazionale nipponica o delle partite annuali tra giornalisti stranieri e parlamentari giapponesi. Solo la grande lapide con inciso il ricordo della visita dell'imperatore - 12 anni fa - non è cambiata. Un via vai di pulman scarica decine e decine di addetti in scafandro. Gruppetti di militari bazzicano intorno a mezzi blindati e camion. Operai con la sola mascherina bianca da città scaricano materiali; altri tengono il mascherone anche se sdraiati a riposo. L'ingresso è ingombro di scatoloni di Tychem e Tyvek "DuPont Personal Protection".

Dentro è un agitarsi frenetico di centinaia di persone in ogni foggia di tute, per lo più con lo stemma Tepco. Migliaia di maschere tipo antigas traboccano dagli scatoloni. Qualcuno è in mutande: ci si cambia davanti a tutti. Alle 12.20 un elicottero scende sul più sgombro tra i campi verdi da gioco: è il premier Naoto Kan, reduce da una mattinata a Rikuzentakata, una cittadina del nord distrutta dallo tsunami. La sua trasferta-lampo è stata preceduta da polemiche: il suo primo viaggio alla centrale, sabato 12, è stato accusato di aver fatto danni (la Tepco avrebbe ritardato di un'ora una operazione tecnica per evitare che il premier potesse contaminarsi). Forse sono solo veleni politici. «Voglio che combattiate con la convinzione che non si può perdere questa battaglia», dice.
Di lì a poco si materializza un energumeno della Tepco, con la targhetta "Mori, affari generali": «Qui non si può stare». Un ordine che vale anche per il freelance Masayomi Kamiyama, collaboratore di Global Press: «Stile Tepco - dice - Ieri ho telefonato a un loro subcontractor fingendo di cercare un lavoro: mi hanno detto che c'è disponibilità alla centrale. No grazie». Kamiyama controlla sul suo aggeggio: «Siamo a 3,76 microsievert per ora. Due ore fa erano quasi 6». Tokyo è a meno di 0,1. È niente rispetto alle notizie arrivate subito dopo la partenza di Kan: mille millesievert nell'aria sovrastante l'acqua contaminatissima che - da una falla alla base dell'edificio del reattore 2 - esce per scaricarsi direttamente a mare. Questa conferma di quanto tutti sospettavano viene dalla Tepco, che proverà a turare lo squarcio con il cemento.

«Io lavoro alla Tepco, ufficio del personale: raccolgo qui le richieste di esami medici - dice Anna T. (nome che viene dall'unione di due ideogrammi) - Mio padre lavora alla centrale: in questo periodo ho imparato a rispettarlo di più. La Tepco ci dà lavoro. Così sopporto di essere finita tra gli sfollati. Sto cercando casa a Iwaki» . Iwaki è una delle più grandi città del Tohoku a 30 chilometri dalla centrale: è proprio alla fine della fascia di rispetto di 10 chilometri, dove si dovrebbe vivere restando tappati in casa. Si capisce perché Tokyo recalcitri agli inviti dell'Aiea per allargare la zona off-limits: 170mila persone vivono tra i 20 e i 30 chilometri, poi la sola Iwaki conta oltre 300mila abitanti.
Al presidio sanitario in città una squadra di tecnici ispeziona all'istante chiunque si presenti e poi rilascia un certificato di non-radioattività. Il porto commerciale è a Onahama. Gli altissimi nastri trasportatori usati per scaricare carbone e minerali di ferro sono piegati e i complessi petrolchimici anneriti appaiono archeologia industriale. Un cartello all'ingresso suona come una beffa: "Porto resistente ai terremoti". Non è stato calcolato lo tsunami. Sembrano in buone condizioni le aziende della zona industriale del primo entroterra, come lo stabilimento di motori Nissan (in riparazione) che il ceo Carlos Ghosn ha promesso di riattivare a metà aprile, sfidando i malumori dei suoi sottoposti in casa Renault (dove si temono le paure del consumatore europeo). Appare intatta ma è sbarrata la fabbrica della tedesca Merck, simbolo delle conseguenze globali della catastrofe giapponese. Solo qui si produceva uno speciale pigmento (Xirallic) per i colori metallizzati: ora i clienti delle grandi case, in Europa e Usa, devono rinunciare al "Tuxedo Black".

Il ritorno a Tokyo è veloce, lungo un'autostrada buia anche nelle stazioni di servizio (risparmio di energia). L'ennesimo terremoto serale - magnitudo 5 - è solo una notizia alla radio. L'impiegato del noleggio auto, a domanda finto-scherzosa, risponde che un cliente che fosse andato nella zona di evacuazione dovrebbe comprare l'auto presa a nolo. Poi ha un lampo di allarme negli occhi. Prima che il conto sia regolato, l'Honda Fit appena restituita è già sotto lavaggio integrale.

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