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Questo articolo è stato pubblicato il 07 aprile 2011 alle ore 06:40.

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La prima telefonata alla Capitaneria di Lampedusa arriva all'una di notte. All'altro capo del telefono ci sono i loro omologhi maltesi: a quaranta miglia da Lampedusa naviga un'imbarcazione di 13 metri con almeno 200 persone a bordo. I maltesi allertano gli italiani dopo aver ricevuto una comunicazione con il satellitare dagli africani in viaggio.
Gli uomini della Guardia costiera, alla cui testa c'è il comandante Morana, un trapanese alto e giovane con la faccia da attore americano, sono colti da un brutto presentimento.

Due motovedette, la CP 301 e la CP 302 mollano immediatamente gli ormeggi dal molo Favarolo alla volta di quel legno fradicio carico di somali, eritrei, camerunensi e ivoriani che procede quasi per inerzia. Imbarca acqua in un mare con onde alte tre metri e un vento che soffia a 25 nodi.
Ci vogliono due ore alla massima velocità per agganciare la barca dei migranti, mentre un velivolo da ricognizione volteggia sulle tre imbarcazioni. Le motovedette italiane capiscono subito che quei corpi attaccati uno all'altro con le facce nere come catrame bordeggiano la linea di confine tra la vita e la morte.
Le motovedette della Guardia costiera, una dietro l'altra, si dispongono in posizione di ombreggiata per spezzare le onde che colpiscono sottovento il barcone salpato almeno trenta ore prima da Zuwarah, in Libia. L'affiancamento dura 45 minuti. Gli uomini della Guardia costiera e gli africani, tra i quali molte donne e bambini, si scrutano a distanza, occhi che guardano altri occhi mentre il cielo carico di vento annuncia l'arrivo dell'alba.

Il motore del barcone si spegne di colpo, le onde piegano la barca e i corpi scivolano in mare. È una scena di qualche minuto avvolta in un silenzio di morte. I corpi di giovani donne, uomini e bambini vanno giù come piombo mentre la barca affonda. Le urla sono strozzate dall'acqua di mare che a fiotti riempie le bocche. I marinai italiani ne tirano per i capelli 53, quelli capaci di nuotare o galleggiare. Almeno 200 di loro scompaiono tra le onde. I tunisini, che conservano la memoria dei marinai cartaginesi, viaggiano su barche più sicure con un comandante esperto di mare. Questo popolo dell'Africa sub-sahariana che fugge da guerre e carestie, invece, non sa nulla di mare, non ha soldi né i contatti per organizzare una traversata che abbia qualche chance di successo. Barche fallate con motori decrepiti. Viaggiano per mare come camminano nel deserto.

Il pilota dell'elicottero della Guardia di finanza che raggiunge il luogo dell'affondamento ha solo la forza di dire: «I cadaveri galleggiano a gruppi, tra loro ci sono dei bambini». Il comandante del peschereccio Cartagine di Mazara del Vallo, Francesco Rifiorito, ascolta l'allarme della capitaneria e raggiunge la scena del disastro qualche minuto prima che la tragedia si compia: «C'erano teste che comparivano e scomparivano».
Qualche ora dopo la Cp 301 e 302 rientrano a Lampedusa. I sopravvissuti raccontano le loro storie: il somalo Karim ha attraversato il Sudan e la Libia. Nei momenti drammatici durante i quali annaspano nel canale di Sicilia è stato costretto a divincolarsi dalla morsa di due suoi compagni che non sapevano nuotare. C'è un uomo che ha perso in mare la moglie e il figlio di tre anni; una somala incinta di otto mesi con la broncopolmonite ricoverata d'urgenza al poliambulatorio e poi in elicottero trasferita a Palermo. C'è Peter, un ragazzone che sulla motovedetta si dispera per la morte della fidanzata che invece viaggia sull'imbarcazione gemella della Guardia costiera. Lui dirottato al poliambulatorio, lei alla base Loran che ospita i sopravvissuti, si ritroveranno dopo qualche ora e si stringeranno in un interminabile abbraccio. Dalla morte alla vita. Succede anche questo a Lampedusa.

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