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Questo articolo è stato pubblicato il 08 aprile 2011 alle ore 06:38.

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NEW YORK. Dal nostro inviato
Da cinque anni i messicani si sentono ripetere da Felipe Calderon, il loro presidente, che è arrivato il momento della resa dei conti con i narcotrafficanti. Ma 35mila morti dopo, il rischio è che invece si arrivi alla resa.
Il Messico è sempre più vicino al collasso psico-sociale. L'ultimo colpo è arrivato mercoledì sera dalla scoperta di otto fosse comuni contenenti 49 cadaveri. A La Joya, una piccola comunità rurale del Tamaulipas, stato del nord confinante con il Texas. La stessa comunità in cui otto mesi fa erano stati trovati i corpi di 72 emigranti centro e sud-americani torturati e uccisi dai narcotrafficanti, apparentemente per essersi rifiutati da servire da "muli" e contrabbandare droga negli Usa.
Lo stato di decomposizione ha spinto la polizia a sospettare che si tratti dei viaggiatori di un autobus dirottato il 25 marzo e di cui si erano perse le tracce. Il motivo dell'eccidio rimane per ora sconosciuto. E nonostante siano stati arrestati 11 sospetti, se i precedenti faranno testo, i responsabili non saranno mai indentificati o puniti.
Come di rito, il presidente Calderon ha espresso il proprio cordoglio ai familiari condannando «l'atto di vigliaccheria che dimostra l'assoluta mancanza di coscienza con cui operano le organizzazioni criminali». Come se dopo 35mila morti ammazzati avesse ancora senso parlare di coscienza.
Quello di cui vorrebbero invece sapere da lui i messicani è quando pensa che la sua guerra ai narcos finirà. Calderon continua a dire che non intende mollare. E che i recenti arresti di importanti narcotrafficanti dimostrano il successo della sua campagna. Ma la realtà è che dopo cinque anni i dati delle vittime rimangono drammatici: il 2010 si è chiuso con oltre 15mila morti, un aumento del 58% sull'anno precedente, mentre il primo trimestre del 2011 ne ha registrati 3.220. In confronto Iraq e Afghanistan sono regni della pace.
Il più recente segno del fatto che il paese sia esausto è venuto dalle manifestazioni tenutesi nello stesso giorno in cui sono stati trovati gli ultimi 49 cadaveri, mercoledì scorso, nelle strade di Città del Messico e di altre metropoli messicane. A convocarle era stato il giornalista e poeta Javier Sicilia, il cui figlio ventiquattrenne Juan Francisco è stato trovato ucciso assieme a sei amici una settimana fa.
Sicilia ha scritto una lettera aperta al Paese in cui chiamava narcotrafficanti «subumani e diabolici», ma accusava anche Calderon di aver dichiarato una guerra «mal pianificata, mal condotta e mal diretta».
Nel 2012 ci saranno le nuove presidenziali e difficilmente dopo Calderon, che non può ricandidarsi, arriverà una persona pronta a proseguire sulla sua stessa strada. Secondo Sicilia il paese rimpiange la relativa tranquillità e sicurezza che c'era prima che Calderon dichiarasse la sua guerra. Allora i narcos potevano fare il bello e il cattivo tempo, ma i figli dei poeti non venivano uccisi senza alcun motivo.
cgatti@ilsole24ore.us
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