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Questo articolo è stato pubblicato il 18 aprile 2011 alle ore 09:20.

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«Oggi tutto può cambiare», recita la pubblicità delle scommesse, al quadrivio di un quartiere popolare, appena fuori il locale dove si affollano casalinghe, operai delle pulizie, pensionati. Spesso per ritirare "vincite" di due, tre, cinque euro. Molto più di frequente per versare una taglia del magro budget per la spesa alimentare o delle mance ricevute servendo ai tavoli del bar.

Di là della pubblicità dei vari giochi – colori e forme infantili, mutuati dai fumetti con le figure piatte e bidimensionali – l'azzardo pubblico è divenuto di massa, pervenendo a questi numeri di consumo, incentrando il modello su frequentissime micro restituzioni. Somme irrisorie che ovviamente non cambiano nulla, ma inducono un gesto automatico. Il "giocatore" ritira quegli spiccioli e li reimmette: nelle scommesse, nelle slot machine, nei tagliandi del Gratta e vinci. Non c'è bisogno di scomodare le analisi di Milton Friedman, per capire come chi disponga di esigui budget (cioè, analogamente, di mini-vincite) è portato a svalutare le pur magre risorse nelle sue mani. Tanto vale rigiocarle. Solo notazioni di costume? Tutt'altro. Siamo al cuore della struttura del business.

Da un lato, il pay out resta in gran parte congelato nelle "ruote della fortuna" (e solo un residuo esce dal giro per convertirsi in acquisto di beni di consumo). Da un altro lato, gli investitori devono allargare indefinitamente il mercato, anche per rifondere alla scadenza i debiti che hanno contratto per entrare nell'affare (impianti, cauzioni, anticipazioni allo Stato). Si possono immaginare a quali tassi d'interesse, quando si dispone di un basso patrimonio e di un capitale sociale modesto.

Quando si avvicina il momento della verità, per reperire le somme da versare alle banche non resta che emettere e collocare dei bond, cioè finanziare il debito con altri debiti. E i risparmiatori li sottoscrivono, appena posano l'occhio sul grafico lineare che descrive la crescita esponenziale del mercato. Per questo trend, però, tutto è dovuto cambiare: nell'equilibrio tra le varie forme di azzardo, nel tramonto dei vecchi appuntamenti settimanali (de profundis al Totocalcio, mentre rischia anche il Lotto) e nella velocizzazione, con il turbo, delle modalità fisiche del giocare.

I giochi pubblici d'azzardo dal 2003 si fondano, infatti, su tipologie di alea che stimolano l'agire impulsivo (o meglio compulsivo) di milioni di persone. E per questo scopo si è passati di recente a una diffusione capillare dei "punti contatto": appena sotto casa, alla cassa di un supermercato, nella mensa aziendale, apparecchi automatici, totem per le scommesse, ventagli di Gratta e vinci.

E la scena dell'azzardo non è più occupata tanto dai gamblers, dai giocatori incalliti, ma da milioni di persone in addiction: che non percepiscono questa loro condizione. L'economia dell'alea è tutta orientata sulla "bassa soglia", sull'inconsistente elaborazione del decidere di entrare nel gioco, sul gesto meccanico. Sull'intrusione nei ritmi delle abitudini quotidiane delle famiglie. Che infatti, in media, spendono (parliamo di quei 15 milioni di nuclei che sono coinvolti in questo consumo) una cifra annua poco distante da quella per gli alimenti: circa 5mila euro.

Così, grazie alla funzione compensatoria della fortuna, assumono cibi di minor qualità, vestono low cost, saltano spesso i pagamenti delle utenze domestiche e dell'affitto dell'abitazione. E l'industria che offre beni di consumo durevoli riempe i magazzini di prodotti invenduti. Quanto ai mass media più pregiati – giornali e riviste – essi diffondono sempre meno copie. L'unica stampa che aumenta il consumo di carta è quella delle "lotterie istantanee". Gli italiani sfogliano sempre di meno i giornali, ma grattano sempre di più i tagliandi del "megamilionario", anche mentre sono in fila all'ufficio postale. Dove un tempo leggevano le ultime notizie, adesso attendono il loro turno: per incassare la pensione, al netto del costo del Gratta e vinci che lo sportellista gli offre, con un sorriso di cortesia.

Come vanno le cose per lo Stato, e per gli stessi attori del ciclo dell'economia dei giochi? Il bilancio è decisamente controintuitivo. Alla spesa crescente dei consumatori corrisponde un'entrata decrescente, in valori relativi e adesso anche in valori assoluti, per le finanze pubbliche. Ad esempio, nel 2004 l'incasso erariale (al lordo delle spese generali di amministrazione) risultò di 7 miliardi e 300 milioni, pari al 29,5% del giocato (24 miliardi e 800 milioni). Lo scorso anno, a un consumo nel frattempo aumentato di ben 148 punti, ha corrisposto un dimezzamento secco delle percentuali: 14,8 punti. E così, ben poco di quei sette miliardi in più spesi dagli italiani nel 2010, rispetto al 2009, ha generato un'entrata per il fisco.

Insomma, per stare a un vecchio paradigma dell'economia marginalista, a mano a mano che si mettono a coltura nuove terre, le rendite calano. Qui poi vi è una decisione specifica. Per allargare il gioco si son dovute tagliare, tanto, le aliquote tributarie: con scommesse tassate al 3%, ben magri ricavati arrivano al Mef da oltre sei miliardi di spesa. Insomma, gli attori (lo Stato, i concessionari, i gestori, gli esercenti) sono entrati nel gioco. Ma non hanno scritto le regole per uscire dal gioco.

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