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Questo articolo è stato pubblicato il 27 aprile 2011 alle ore 09:22.

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Nessun addio al nucleare. Semmai un arrivederci in nome di una moratoria "tecnica". Per chiarire bene l'entità e le ragioni del disastro di Fukushima «che ha spaventato gli italiani» ma che comunque – incalza con gran sicurezza Silvio Berlusconi – «si è verificato perché quella centrale era stata edificata su un terreno che non lo permetteva». Una moratoria per elevare comunque al massimo la sicurezza dell'energia nucleare che comunque «è sempre la più sicura».

Guai dunque a chiamarla fuga, la nostra. Il piano per il Rinascimento nucleare italiano rimane immutato e per ora immutabile. Tant'è che il patto con la nuclearissima Francia rimane in piedi. E con esso la joint «e i contratti» tra Enel e Edf per costruire qui da noi le prime quatto centrali atomiche con tecnologia transalpina Epr.

Questione, semplicemente, di un po' di tempo in più. «Tra un paio di anni, quando l'opinione pubblica sarà più serena e tornerà a comprendere la necessità assoluta del nucleare per noi e per tutto il mondo, potremmo riprendere il cammino» proclama Berlusconi. Che incalza. Il decreto che cancella le norme di legge che hanno appunto tracciato il nostro nuovo cammino nucleare? È vero, tutto vero: mossa antireferendaria e dunque strumentale, afferma il sostanza il nostro premier. Perché «se fossimo andati oggi al quel referendum il nucleare non sarebbe stato possibile per anni».

Onore alla chiarezza. Berlusconi alza il sipario strategico, che nelle ultime settimane si era indubbiamente fatto un po' nebuloso, sull'atomo italiano. Lo fa, nella conferenza stampa con il presidente francese Nicolas Sarkozy per il vertice di Villa Madama, ben consapevole delle violentissime bordate polemiche puntualmente giunte un attimo dopo dallo schieramento antiatomo che attraversa le opposizioni e le associazioni ambientaliste.

Una sortita evidentemente ben ponderata. E ben mescolata con le notissime argomentazioni su un'Italia che sull'onda di «un ecologismo di sinistra che si è messo di traverso» si era già fatta travolgere dal referendum post-Chernobyl del 1987, assecondando inopinatamente una chiusura netta del suo buon nucleare che avevamo. Una scelta forzata che ha reso l'Italia praticamente monodipendente dagli idrocarburi (prima il petrolio, ora il gas). Il che si è tradotto in un sovraprezzo finale dell'energia tra il 20 e il 30% che taglia seriamente le ali della nostra competitività.

Accanto a Berlusconi il presidente francese Sarkozy gli dà man forte: non a caso la Francia rimane super-nuclearista. E «il giorno in cui i nostri amici italiani decideranno di tornare al nucleare, la Francia sarà per l'Italia un partner accogliente e amichevole» ben sapendo che «chi agita le paure sul nucleare si dimentica del fatto che tutti gli italiani così come i francesi vogliono essere illuminati e riscaldati».

Le parole di Sarkozy suonano come un'esplicita conferma dei buon giro d'affari che Italia e Francia in nome dell'atomo hanno già messo in campo. Immutato rimane, in particolare, il patto di partecipazione al 12,5% della nostra Enel per la costruzione direttamente in Francia (con relativi diritti di prelievo e vendita dell'energia prodotta) dei nuovi reattori Epr che cominceranno a debuttare con l'impianto in costruzione (con qualche problema) a Flamanville, sulle coste della Normandia.

Una joint energetica a tutto campo che viene «pienamente riconfermata» insieme alla società Enel-Edf creata per le operazioni qui da noi, la Sni (Sviluppo Nucleare Italia) .

Inevitabili, e in qualche modo scontate, le accesissime reazioni degli "anti", che attraversano i partiti politici di opposizione e le associazioni ambientaliste. Per il merito della questione ma anche per il metodo, insistono serrando le fila su una richiesta comune: il referendum si faccia comunque, insieme agli altri, tenendo conto che quelli di Berlusconi sono chiaramente «trucchi ed espedienti per vanificarlo» accusa il capogruppo del Pd alla Camera, Dario Franceschini.

Incalzano dallo stesso fronte il segretario Pd, Pier Luigi Bersani (con i francesi «ci siamo messi proprio a tappetino») e il leader di Sel, Nichi Vendola («ci auguriamo che la Corte di Cassazione ne tenga conto»). «Bloccare il referendum a questo punto significa negare un diritto costituzionale garantito» accusa il leader dell'Idv, Antonio Di Pietro, che si appella direttamente al Capo dello Stato perché blocchi «questo misfatto».

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