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Questo articolo è stato pubblicato il 27 aprile 2011 alle ore 06:37.

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«Cartolarizzazione in corso». Il cartello, prima della crisi, faceva bella mostra di sé all'ingresso di molte banche, soprattutto negli Usa. Ma anche all'entrata di tanti istituti finanziari, o veicoli ad hoc, al servizio delle stesse.
Quattro anni dopo, 600 miliardi di controvalore in Abs in meno, lo spazio per l'avviso si è ridotto. I portoni dove appenderlo hanno cambiato indirizzo o non ci sono più. Esempi? New Century Financial: tra i big dei cartolarizzatori subprime, nel 2007 finisce in amministrazione controllata e alla fine cade tra le braccia di Bank of America. La stessa Lehman Brothers, icona dello tsumani finanzario, è fatta propria dall'inglese Barclays.
Geometrie variabili, insomma: chi sparisce, chi dismette e chi fa shopping. Il tutto mentre gli Abs, in sé non strumenti "malefici", risalgono la china tra alti e bassi. Nel 2009 le emissioni mondiali raggiungono il controvalore nominale di 146 miliardi di dollari; il trend rallenta nel 2010 (107,5 miliardi), per riprendersi nel primo trimestre di quest'anno. Al 31 marzo scorso, le fornaci degli emittenti hanno prodotto 82,1 miliardi di Abs contro i 75,7 dello stesso periodo del 2010. Di questi 1,4 miliardi sono Cdo, cioè titoli che spesso hanno fatto rima con asset tossici.
Al di là del passato che può tornare, i signori della cartolarizzazione sono al lavoro. E tra loro le banche. Già, le banche: ma quali le più attive nel business? Sfogliando le tabelle del sito abalert.com, la finanza americana, e soprattutto inglese, risponde ancora: presente! Molti bookrunner, cioè gli organizzatori del deal, arrivano dalla perfida Albione o da Wall Street. Nel primo trimestre del 2011, Barclays domina la finanza strutturata mondiale con una market share del 13,2 per cento. Poi una pattuglia di aziende a stelle e strisce: JpMorgan (10,9%), Citigroup (9,2%)e Bank of America (7,7%). Si inserisce infine, nella top five, Credit Suisse (7,4%). In grandi linee il film si replica anche sugli Abs, «ma è il dato annuale – sottolinea Sergio Pigoli, analista e vecchio lupo di Piazza Affari – che dà il vero polso della situazione».
Ebbene, a fine 2010 tra le big five compaiono guarda un po', sia negli Usa che in Europa, le inglesi Royal bank of Scotland e Barclays. Quest'ultima, forte del network guidato un tempo da Richard Fuld, è al primo posto in America con 54 deal, per un controvalore di 23,1 miliardi di dollari. Nel vecchio continente, invece, è sull'ultimo gradino del podio, dopo Lloyds Banking (13,8 miliardi in emissioni) e la stessa Rbs (12,8 miliardi). Ovviamente non manca la finanza della "strada del muro": JpMorgan (16,87 miliardi), Bank of America (16,4) e Citigroup (13,6) sono tra i grandi bookrunner negli Usa.
Rileva Mario Spreafico, direttore investimenti per Schroeder Italia: «Le top five del mercato a stelle e strisce valgono il 58,4% di tutte le emissioni. Un dato più alto rispetto a quello dell'Europa», dove le prime cinque banche rappresentano il 43,7 per cento. Un rischio? «La maggiore concentrazione è conseguenza del fatto che l'America è un unico Stato. Nel vecchio Continente, invece, la natura nazionale delle banche, con le diverse regolamentazioni, causa la frammentazione». Ciò non toglie che la tendenza all'oligopolio, un vizietto diffuso nella finanza di Wall Street, «faccia pensare».
Così come fa rimuginare che non solo sul primario, ma anche sul secondario, i Cdo siano ancora ben presenti. Accade in Europa, un mercato più "sano" e tranquillo di quello Usa. Ebbene: da un lato è ben vero che nelle emissioni la parte del leone la fanno gli Rmbs, cioè le tranquille (con l'eccezione spagnola) cartolarizzazioni legate ai mutui per la casa; dall'altro, però, i Cdo saltano fuori con forza. Valgono 38,8 miliardi di controvalore. Su mercato secondario, invece, diventano 307 miliardi. Una cifra ben più bassa rispetto agli Rmbs ma comunque non proprio irrilevante. «In realtà – dice Luca Peviani, ceo di P&G, fondo specializzato in Abs – non si tratta dei tanto vituperati derivati costruiti sui subprime. Bensì, di emissioni che sfruttano obbligazioni emesse per operazioni quali, per esempio, leverage buy out su aziende. Cioè molto più sicure». Il commento rincuora. Ma chi mette la mano sul fuoco che nessuno tiri fuori dal cilindro le vecchie strategie?
La realtà, alla fine, è articolata. Un mondo, al di là delle banche, un po' a macchia di leopardo. Soprattutto rispetto agli altri attori oggi protagonisti tra gli Abs: gli hedge fund. Una centralità, la loro, che trova motivazione proprio nelle origini della ripresa del mercato. «Nella primavera del 2009 – ricorda Peviani – molti manager di Abs sono stati licenziati dalle banche d'affari americane. Giocoforza, hanno dovuto re-inventarsi. Sono diventati broker, intermediari, in proprio o per conto di istituzioni finanziare». Spesso gente «con alte competenze e, soprattutto, un'agenda piena zeppa di numeri di telefono di investitori». Così, sfruttando i bassissimi prezzi degli asset e l'appetito al rischio degli operatori, hanno iniziato a offrire questi prodotti non più a grandi banche o fondi comuni, bensì a fondi hedge, soprattutto attivi sul reddito fisso. Insomma, una domanda creata dall'offerta che, dagli Usa, ha preso piede anche in Europa.
Lo stesso Hfri fixed income asset backed index, che monitora la performance degli hedge fund attivi sugli Abs, lo dimostra: negli ultimi due anni è saliti di oltre 400 punti. Un bel balzo in avanti, non c'è che dire. «Ma con un corporate BBB che offre 150 basis point sull'Euribor e un Abs di uguale rating che ne dà 800 la scelta va da sé», ribadisce Peviani. Per nulla scontate, al contrario, le decisioni come quelle di Stark Investment. L'hedge fund californiano lancerà un veicolo con strategia duplice: comprare Cds contro subprime, scommettendo sul rialzo dei premi, e, al contempo, sfruttare il calo dei prezzi sulla protezione in seguito alle "svendite" delle banche per Basilea III. La reazione è pavloviana: basta simili alchimie.

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