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Questo articolo è stato pubblicato il 28 aprile 2011 alle ore 17:54.

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La sentenza nella causa C61/11PPU, che censura il reato italiano di clandestinità introdotto dal pacchetto sicurezza (legge 94/2009), ripropone il problema dell'autonomia degli Stati membri nel disegnare le norme penali. In teoria si tratta di una competenza propria nazionale, in pratica e nella prassi il diritto dell'Unione può diventare cogente, come dimostra una giurisprudenza ormai trentennale (a partire dalla causa 230 del 1980).

Tuttavia ciò che più ha impressionato i giudici della Corte di giustizia europea, nel caso deciso oggi, non è tanto la scelta di rendere «penale» il comportamento del clandestino che non si allontana dall'Italia, quanto la sproporzione di una pena (da 1 a 5 anni) irrogata solo per una semplice violazione di carattere amministrativo - cioè il mancato allontanamento volontario dopo il provvedimento del questore. Una sanzione, è giusto ricordarlo, spinta all'epoca così in alto per consentire l'adozione della custodia cautelare in carcere durante la fase di «maturazione» del processo. L'effetto è stato una politica altamente repressiva nell'indole che però, secondo le più recenti statistiche, costringe in carcere solo 1.301 stranieri per il reato di clandestinità, ben poca cosa rispetto ai numeri di un fenomeno fuori controllo. Stranieri che da domani, tra l'altro, grazie all'intervento della Corte di giustizia europea, dovranno tornare liberi, se non condannati in via definitiva.

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