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Questo articolo è stato pubblicato il 03 maggio 2011 alle ore 06:38.

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Ora che Osama Bin Laden è stato eliminato, una delle domande che sorge spontanea è: quanto è costata al mondo la sua minaccia? Non solo, ovviamente, dal punto di vista politico-strategico: la soppressione della "grande mente" del più grave attacco militare mai subito dagli Usa sul loro territorio sicuramente non aveva prezzo, almeno dal punto di vista di Washignton. Essendo anche divenuta un punto d'onore per ben tre presidenti, che hanno fatto capire con determinazione come l'obiettivo andasse conseguito in ogni caso e a ogni prezzo. C'è poi il profilo dei costi umani (altissimi: oltre 7mila vittime complessive tra i soldati della coalizione e oltre 100mila tra i civili), ma anche di quelli economico-finanziari.
Il prezzo pagato (1.300 miliardi di dollari posti ufficialmente a bilancio dal Pentagono), rispetto all'efficacia conseguita (Osama catturato, ma al-Qaida sempre viva e operativa, seppure malconcia, anche nello stesso Afghanistan, come ha ammesso il comando Usa) appare opinabile. Anzi, – secondo il premio Nobel dell'Economia Joseph Stiglitz, che monitora fin dal 2003 l'andamento dei costi dei conflitti Usa in Iraq e Afghanistan – decisamente eccessivo. Ancora nel settembre scorso indicava sul Washington Post un controvalore di oltre 3mila miliardi di dollari.
Le cifre licenziate a fine marzo dal Congresso in un apposito studio dicono infatti che la lotta al terrorismo globale, attuata sotto forma d'interventi militari in Iraq (Iraqi Freedom) e in Afghanistan (Enduring Freedom) – oltre all'operazione Noble Eagle, volta a potenziare la sicurezza delle basi americane all'estero e interne – danno una spesa totale di 1.283,3 miliardi di dollari. Questa somma colossale deriva dagli 805 miliardi di costo dell'invasione irachena (62,7%), dai 443 di quella afghana (34,5%) e da alcune relativamente piccole voci residuali extra-budget: 28,6 miliardi dovuti soprattutto alle misure di contrasto ai cosiddetti Ied (Improvised explosive device), ordigni a basso costo che dal 2007 hanno però causato due terzi delle perdite tra le truppe Nato. E di 5,5 miliardi del bilancio 2003 non ripartiti.
Se si guarda alla destinazione delle voci di spesa, impressiona non tanto la ovvia dominanza dei fondi destinati al Pentagono (1.208 miliardi, oltre il 94% del totale), quanto l'esiguità delle voci "civili" (66,7 miliardi, 5,2%, più o meno equamente divisi tra Iraq e Afghanistan), indirizzate alla ricostruzione e a piani di pubblica utilità (scuole, ospedali, acquedotti). Quelle, per intenderci, in cui si è distinta la cooperazione italiana e che avrebbero dovuto – secondo una vecchia e lodata, ma mai troppo praticata, filosofia d'intervento Usa – «conquistare le menti e i cuori» delle popolazioni locali. Mentre alcune briciole (8,4 miliardi) sono state destinate alle spese mediche per i reduci. Con forti polemiche di questi militari per i frequenti disconoscimenti di alcune malattie di servizio legate all'uso di armi contenenti uranio impoverito.

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