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Questo articolo è stato pubblicato il 03 maggio 2011 alle ore 06:38.

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Non era nascosto in una scomoda grotta tra i picchi acuminati dell'Hindukush ma viveva, da cinque anni, in una villa fortificata a 70 chilometri da Islamabad, a poche centinaia di metri da un'accademia dell'esercito, accanto a un pensionato per ufficiali di cavalleria, senza comunicazioni verso l'esterno. Probabilmente guardato a vista dai militari. Un sorvegliato speciale, ucciso in un'operazione della Delta Force Usa.
Una fine improvvisa e un po' misteriosa quella di Osama Bin Laden con una sola certezza: ora può cominciare davvero l'exit strategy dall'Afghanistan, il vero dividendo politico e militare di questa operazione, e infatti Marc Grossman, inviato speciale Usa per l'Af-Pak, è volato subito a Islamabad per aprire «un dialogo strategico».
Senza la collaborazione del Pakistan, sottolineata anche dal presidente americano, Osama sarebbe ancora nella North West Frontier, all'incrocio delle strade che portano verso la ribollente Peshawar e l'ingestibile area tribale ai confini con l'Afghanistan. L'uccisione del capo di al-Qaida è stata resa possibile dalle autorità pakistane che fanno tiepide smentite per evitare ripercussioni immediate in un Paese dove le simpatie per i jihadisti sono diffuse a ogni livello. In particolare ai vertici di un sistema che ha appoggiato tutte le organizzazioni che destabilizzavano l'Afghanistan. «Grazie al cielo - dichiarò Bin Laden al giornalista Hamid Mir, direttore di Geo Tv - i funzionari pakistani si riconoscono nei sentimenti islamici delle masse musulmane: questo si traduce in simpatia e collaborazione».
Bin Laden era alleato dei talebani del Mullah Omar e quindi di Islamabad. Nella sua lussuosa villa alla periferia della capitale il generale Hamid Gul mi disse nell'ottobre 2001: «Osama interpreta la nostra ostilità alla politica americana». Gul, ex direttore dell'Isi, i servizi militari, aveva contribuito all'ascesa del Mullah Omar e conosceva perfettamente Bin Laden che insieme al capo di stato maggiore Aslam Beg aveva invitato per una conferenza a Peshawar nel gennaio 2001, otto mesi prima dell'11 settembre.
«Se in questi anni i pakistani avessero voluto catturarlo potevano farlo senza troppa fatica», ha dichiarato qualche tempo fa Richard Clarke, capo dell'antiterrorismo Usa nell'amministrazione Clinton. Non c'è da dubitarne: perché, allora, lo hanno "consegnato" solo ora? Osama non serviva più. Era un ospite scomodo di cui liberarsi perché non entrava in nessuna delle soluzioni politiche sull'Afghanistan che potevano interessare il Pakistan. Con i talebani si può negoziare, lo hanno detto anche gli americani, non però con al-Qaida.
La svolta è cominciata nel 2008 con l'uscita di scena del presidente Pervez Musharraf che lascia il campo ad Alì Zardari, vedovo di Benazir Bhutto. Il Pakistan è già un Paese con più morti, bombe e attacchi suicidi dell'Afganistan: 30mila vittime tra i civili, 5mila nelle forze di sicurezza.
Il nuovo capo di stato maggiore, Pervez Kayani, accoglie l'invito degli americani e del generale David Petraeus a collaborare. La posta in gioco è alta: si tratta di rimettere sotto controllo il Pakistan, di ricevere gli aiuti Usa, di trovare per Islamabad un posto al tavolo dei negoziati sul futuro dell'Afghanistan, di mettersi al passo con un mondo musulmano che cambia. La fine di Bin Laden può quindi significare l'inizio della svolta, della exit strategy dall'Afghanistan, sia per gli americani che per le altre truppe occidentali, tra cui le nostre. La via di uscita dal pantano di Kabul non può essere infatti solo militare ma anche politica e il Pakistan ha un ruolo decisivo nel convincere talebani a imboccare la strada del negoziato. Bin Laden, l'uomo più ricercato del mondo, è stato dunque sacrificato dai pakistani sull'altare della realpolitik.
© RIPRODUZIONE RISERVATA di Alberto Negri

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