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Questo articolo è stato pubblicato il 06 maggio 2011 alle ore 08:22.

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Il Brescia lotta per restare in A ma la città snobba il calcio (Ansa)Il Brescia lotta per restare in A ma la città snobba il calcio (Ansa)

Zero ore. Gino Corioni si vanta di non avere mai utilizzato la cassa integrazione per i circa 160 lavoratori della azienda di famiglia, la Saniplast. Ma con il Brescia Calcio è diverso. La società che presiede da quasi 20 anni non chiude un bilancio con un margine operativo lordo positivo da tempo. Si tratta pur sempre di una squadra di calcio, realtà per cui il conto economico è importante, ma solo fino a un certo punto. Il Brescia però, ormai appeso solo per un filo alla serie A (i bookmaker lo danno in B a quota 1,05), è deficitario anche su altri fronti: nella stagione attuale è di poco meno di 8mila spettatori (il minimo della serie A) l'afflusso medio allo stadio cittadino, dedicato alla memoria di Mario Rigamonti.

Gino Corioni, poi, dice di volere vendere la squadra. «Brescia – spiega – è una città più importante della squadra che la rappresenta. C'è un'imprenditoria diffusa, una vocazione industriale consolidata: merita una squadra sostenuta stabilmente in serie A». Pochi però, stando alle voci di corridoio, sono disposti a credere alle minacce di Corioni. Nonostante questo, le dichiarazioni del patron del Brescia calcio meritano una riflessione. Perché le vicende di una squadra di pallone (di fòbal, direbbero qua a Brescia) travalicano l'ambito sportivo. Coinvolgono, nel caso in questione, una piazza "calda" solo per il tifo organizzato (leggi ultras), ma fredda negli altri casi, come dimostra il numero degli spettatori, che anche nell'era Baggio non ha mai superato quota 13mila.

Le dichiarazioni di Corioni chiamano in causa una città, che aspetta insieme al presidente da più di 10 anni un nuovo stadio che, giunta dopo giunta (prima il centrosinistra guidato dal Ds Paolo Corsini, ora il centrodestra del sindaco Pdl Adriano Paroli), è rimasto un miraggio. Lo sfogo di Corioni scomoda infine ipotesi di fantasia su possibili nuovi apporti di capitale per la società. Rumors su mandati esplorativi affidati a Ubi e su cordate che coinvolgono la grande industria famigliare locale: dai fratelli Lonati, leader nella produzione di macchine per calze e già compagni di avventure nella Hopa di Chicco Gnutti, ai Pasini, industriali dell'acciaio. E i destini del Brescia non lasciano indifferente nemmeno il potere finanziario storico: in un'intervista al quotidiano locale Bresciaoggi, il presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, il bresciano Giovanni Bazoli, si è scomodato a dichiarare che «non è affatto banale», per una città, avere o non avere una squadra di calcio in A. Ma fino ad oggi tutti questi rumors sono rimasti tali.
I conti

Il Brescia calcio ha chiuso il 2010 (l'esercizio si archivia a fine giugno) con un margine operativo lordo negativo per oltre 17 milioni, mentre nel 2009 il margine è andato in rosso per 19 milioni. È pur vero che i bilanci delle società calcistiche si risolvono di solito nell'ultima parte del conto economico, grazie alle plusvalenze da cessioni e all'apporto di altri proventi straordinari. Ma il Brescia Calcio fatica anche su questo fronte: il 2010, spesati ammortamenti e tasse, si è chiuso con una perdita netta di quasi 11 milioni, nonostante 7 milioni di plusvalenze iscritti tra i ricavi. Meglio è andato il 2009, chiuso con un utile di circa 2 milioni, per realizzare il quale, però, non sono bastati 16 milioni di plusvalenze da cessioni: a fare la differenza è stato un ricavo non caratteristico di 2,5 milioni relativo alla cessione di diritti relativi all'archivio storico televisivo della Rai.

L'equilibrio nella gestione caratteristica, se così si può dire, Corioni l'ha raggiunto, negli ultimi anni, solo nel 2008. Quell'anno, nonostante un costo non previsto di 1,230 milioni per perdite di cambi relative alla frettolosa estinzione di alcuni prodotti derivati, il Brescia ha chiuso con un utile di 2,9 milioni. Un risultato raggiunto al prezzo di plusvalenze record però, per quasi 20 milioni: quello è stato l'anno della cessione di Mannini, di Santacroce e soprattutto del gioiellino slovacco Marek Hamsik, venduto al Napoli. Non sempre capitano stagioni così. Ed è naturale che una società, se vuole raggiungere risultati sportitivi dignitosi, non può vendere ogni anno l'argenteria. E quando non si ha nel carniere un Hamsik o uno Nsereko da valorizzare, sono dolori. Il Brescia nel 2007 ha perso 8,255 milioni, nel 2006 il rosso è stato di 751mila euro, nel 2004 la perdita è stata addirittura di oltre 11 milioni. Solo nel 2005 l'utile è stato consistente, pari a 6,7 milioni. Ma il risultato è stato raggiunto, anche in questo caso, grazie a un'operazione contabile straordinaria che ha portato alla valorizzazione del marchio Brescia calcio, fino ad allora non contabilizzato in bilancio, per circa 20 milioni.

Corioni, insomma, in questi anni le ha provate tutte per fare tornate i conti. «Non ho dissipato patrimoni – spiega il presidente –. Ho fatto quello che ho potuto». Ma non sempre le cose possono andare per il verso giusto. Emblematico, da questo punto di vista, il commento del presidente all'ultimo bilancio, quello chiuso con una perdita di 10,714 milioni. Il risultato, dice Corioni nella relazione sulla gestione, è «diretta conseguenza della partecipazione alla serie B». Nella serie cadetta, argomenta il presidente, i ricavi si riducono, perché vengono a mancare gli introiti per la cessione dei diritti televisivi. E anche l'appeal sui tifosi si riduce: negli ultimi anni in B il Brescia ha toccato punte minime di 1.600 spettatori paganti. Ecco che allora il presidente punta tutto sul futuro. «Sono certo che, partecipando nuovamente al campionato di serie A, il pubblico affluirà numeroso anche se, nonostante l'avvenuta ristrutturazione, sarà necessario dotarci al più presto di uno stadio nuovo».

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