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Questo articolo è stato pubblicato il 07 maggio 2011 alle ore 08:11.

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BERGAMO. Dal nostro inviato
Sandro Pertini, piccolo imprenditore di Macerata, non usa mezzi termini: «Non si può spiegare a Maradona come tirare in porta, fa parte del suo Dna, è classe innata. Allo stesso tempo nessuno può spiegare agli imprenditori come fare il loro mestiere. Siamo la parte migliore del paese, lavoriamo in un humus costantemente degradato, va sempre peggio, l'unica cosa di cui abbiamo bisogno è un minimo di regole decenti per poter gestire le imprese». Pertini parla dopo la presentazione del primo rapporto sulle Pmi realizzato dal centro studi Confidustria. Luca Paolazzi, responsabile CsC, lo tranquillizza: «Non abbiamo intenzione di insegnare a nessuno, abbiamo semplicemente fatto un lavoro ad ampio raggio, sentendo le esigenze degli imprenditori e mettendo a confronto esperienze significative».
Gli imprenditori hanno "confessato" i loro problemi ai curatori del rapporto. Hanno evidenziato le loro difficoltà, le carenze e le attese. Al Comitato centrale della piccola industria si confrontano. Parlano delle loro esperienze, concordano sull'obiettivo fondamentale: bisogna crescere, la globalizzazione lo impone, i costi della ricerca anche, l'asticella della qualità e del servizio va alzata. Sempre di più, senza sosta. Ma in una specie di seduta di introspezione, come la definisce il presidente Vincenzo Boccia, restano su posizioni differenti.
Rapporto e relatori toccano un nervo scoperto: per crescere è necessario innestare manager esterni? La famiglia, soprattutto nel passaggio generazionale, rischia di essere un freno, quando non addirittura un peso, per il futuro dell'impresa?
Renato Cifarelli, da Voghera non ha dubbi: «Nella nostra azienda con dieci milioni di fatturato, avevamo tutte posizioni dirigenziali occupate dalla famiglia. Abbiamo inserito un direttore generale esterno, probabilmente siamo stati pessimi selezionatori, ma dopo qualche mese passato a mangiarci il fegato abbiamo chiuso l'esperienza, con un costo enorme per noi. Parlo di 500mila euro e anche più».
Un imprenditore torinese, «niente nomi, stiamo concludendo delicate operazioni», racconta la sua esperienza drammatica, sette fratelli e 17 nipoti in azienda: «Sto faticosamente cercando di smantellare questo sistema che rende ingovernabile l'impresa. Impatto finanziario e crisi globale ci impongono di cambiare assetto. Dobbiamo, tutti, imparare a relazionarci più professionalmente con il mondo finanziario e vedere meglio il futuro».
Daniela Guadalupi, di Bergamo, racconta la sua esperienza negativa, c'è sofferenza nelle sue parole: «Quasi 18 anni fa in un albergo di Dubai molto emozionata ho assunto un top manager di una multinazionale, un disastro per i conti aziendali. E per la cultura aziendale. Io non credo che le famiglie siano un ostacolo allo sviluppo delle piccole imprese, ma penso che il fondatore abbia il dovere di instradare i suoi eredi, intuirne le potenzialità. E sapere farsi da parte al momento opportuno, altrimenti il figlio o la figlia farà l'erede avita, come il principe Carlo, che è senza arte né parte aspettando che la regina Elisabetta si ritiri».
Esperienze negative, ma anche esperienze positive: Andrea Funari, da Caserta, riporta l'ottimismo in sala. Seconda generazione, tre fratelli, hanno pianificato il futuro dell'azienda: «Prima ci siamo chiesti dove volevamo arrivare, quali mercati aggredire, come diversificare la produzione. Poi abbiamo fatto un patto di famiglia che prevede precisi impegni. Per esempio che a 65 anni ci dobbiamo ritirare dalla gestione restando solo azionisti. E che i figli potranno entrare in azienda solo se avranno completato precisi percorsi di studio e dopo che avranno cercato la loro vocazione professionale in altre direzioni».
Emilio Scotti, milanese, strappa applausi: ex dirigente di multinazionale si è messo in proprio, «la dimensione non conta, è fondamentale il fiuto imprenditoriale che in un attimo sa cogliere tutte le opportunità di mercato e prodotto. Sa rischiare, l'imprenditore, mentre il manager ha la tendenza a ponderare, fare diagrammi, elaborare strategie senza accorgersi che i concorrenti si portano via gli affari migliori. Metteteci nelle condizioni di lavorare, non fateci passare metà del tempo a sbrigare le pratiche burocratiche. Non fateci soccombere sotto un peso fiscale che sfiora il 70% e vedrete che sapremo crescere».
Il leit motiv è che ogni azienda fa storia a sé, ogni settore ha le sue peculiarità, territori e distretti anche. C'è voglia di confronto franco, mancano poche ore alle Assise, Emma Marcegaglia è stata perentoria: «Vi voglio carichi e forti». I piccoli imprenditori sono carichi, molto carichi. Arrabbiati anche, per le occasioni perse. Sono pronti, per l'Assise.
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