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Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2011 alle ore 08:12.

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BERGAMO. Dal nostro inviato
Il primo socio occulto dell'imprenditore italiano è lo Stato esattore. Spesso il secondo è la banca che, quando le cose vanno male, trasforma i crediti in azioni. Il capitalismo produttivo italiano ha limiti interni e vincoli esterni. Fra questi ultimi hanno un peso rilevante il fisco e il credito. Entrambi comprimono la solidità patrimoniale, influiscono sulla liquidità e condizionano l'operatività delle imprese.
Alla tavola rotonda di Bergamo, coordinata dal presidente del Comitato tecnico per il fisco Luca Garavoglia e dal presidente della Piccola Industria Vincenzo Boccia, gli imprenditori hanno espresso il loro disagio. La pressione fiscale supera di tre punti la media dell'area euro. Per World Bank il tax rate sulle nostre imprese è del 68,6%, contro il 48,2% della Germania e il 37% dell'Inghilterra.
Ma non è soltanto un problema di strabordante erosione quantitativa dei profitti lordi. È anche una questione di assetto complessivo del sistema. Che ha tali deficit da risultare irragionevolmente inefficiente. Da una parte e dall'altra del campo di gioco. Intendiamoci: nessuno, qui a Bergamo, si è sentito di sostenere che la lotta contro il sommerso, lo Stato, non la debba fare. Però, allo stesso tempo, si è ribadito come non sia accettabile un rapporto "persecutorio" con il fisco. Anche perché tutti sperimentano, nella loro quotidianità, quanto i controlli risultino eccessivi. Più di una punta di delusione politica, per questo. Senza un particolare orientamento verso una forza o l'altra, ma come forma di disincanto corale per quanto è capitato in Italia con ogni governo della Seconda Repubblica.
Alcune imposte sono difficili da accettare, per meccanismi di funzionamento oltre che per impatto economico. L'Irap, che per gli imprenditori resta «un iniquo balzello», va depotenziata lavorando sulla eliminazione dalla sua base imponibile della voce del costo del lavoro. L'Ires andrebbe caratterizzata per una maggiore deducibilità, per esempio sugli interessi passivi. Il decreto sulla ricerca dovrebbe essere depurato di ogni discrezionalità da parte della pubblica amministrazione. La giustizia tributaria è da accelerare.
La condizione di strutturale ostilità nel rapporto con lo Stato esattore costituisce una delle ragioni della debolezza profonda della fisiologia industriale italiane. Nel nostro paese il leverage medio (rapporto fra debiti finanziari e patrimonio netto) è del 57,8%, dieci punti sopra la media europea. Questa percentuale costituisce l'astratto punto di incrocio fra la forza delle banche e la debolezza patrimonial-finanziaria delle imprese. Che diventa strabordante nel caso di quelle piccole. Non a caso le reti di impresa potrebbero diventare interlocutrici uniche delle banche. Peraltro, rispetto ai grandi gruppi le aziende fino a 250 addetti hanno una più alta incidenza dei debiti a breve termine sul totale dei debiti finanziari e una minore capitalizzazione.
Per porre rimedio a quest'ultima debolezza, in pochi pensano alla quotazione in Borsa. Invece, tutti ma proprio tutti pensano a uno dei buchi neri dell'economia italiana: i debiti della pubblica amministrazione verso il settore privato. Per smaltirli, qualcuno ha proposto una cartolarizzazione che potrebbe garantire le risorse con cui effettuare gli investimenti e le ripatrimonializzazioni. Anche se non è mancato chi ha fatto notare come, sulla ammaccata fisiologia finanziaria del nostro tessuto industriale, influiscano pure i ritardi con cui le grandi imprese pagano le piccole e le medie aziende.
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IL PESO DEL FISCO 68,6%
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