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Questo articolo è stato pubblicato il 11 maggio 2011 alle ore 07:54.

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A pochi giorni dalle elezioni, Berlusconi fa quello che sa fare meglio: alza il livello dello scontro, calamitando su di sé consensi e aspre critiche. Nessuna meraviglia quindi se apre un nuovo fronte, il più destabilizzante. Annunciare un disegno di legge costituzionale per ridurre i poteri del presidente della Repubblica e aumentare quelli del premier significa, è ovvio, mettere in discussione l'equilibrio istituzionale previsto dalla Costituzione. Ma la mossa era nell'aria, sull'onda degli eventi più recenti e del particolare attivismo di Napolitano.

Non conta, in questo momento, misurare quanto sia realistico un simile progetto di revisione. È probabile che non lo sia affatto, per la semplice ragione che la proposta di legge accenderebbe il Parlamento e lo trasformerebbe in un'arena, un «saloon» stile Far West. Di sicuro la Lega non seguirebbe mai il premier lungo tale sentiero. Alla fine l'incartamento finirebbe dimenticato in qualche cassetto. Quello che conta, tuttavia, è capire perché Berlusconi ha deciso proprio ora di dar voce alla sua insofferenza e di contrapporsi sul piano mediatico, ma non solo, al capo dello Stato. Al di là della questione elettorale, le ragioni possono essere tre.

La prima e più evidente: il presidente del Consiglio non sopporta da tempo il dualismo a cui si sente costretto dall'architettura costituzionale. Da anni una delle sue frasi preferite recita: «Io non ho poteri, li ha tutti il Quirinale». Il che suona anche come alibi per le difficoltà di governo. Nelle ultime settimane la sensazione di essere sotto tutela si è accentuata. Ancora l'altro giorno lo ha indispettito la richiesta della presidenza di verificare in Parlamento i cambiamenti della maggioranza, sanciti dalla nomina dei nuovi sottosegretari.

Lì per lì il premier aveva deciso di far buon viso a cattivo gioco, ma il «Giornale» la mattina dopo titolava polemico: «Il comunista non ci sta». L'idea che Napolitano, come ogni altro presidente della Repubblica, sia riconosciuto quale garante della Carta costituzionale, rispetto allo stesso premier «eletto dal popolo», non ha mai convinto Berlusconi. E non è un mistero.

Secondo punto. Da giorni i quotidiani – si veda ad esempio il «Riformista» – raccontano di manovre politiche che potrebbero dare frutti nelle prossime settimane, dopo il secondo turno delle amministrative. Le indiscrezioni dicono di un Bossi inquieto, molto infastidito dalla crociata che il suo alleato conduce in forme quasi ossessive contro le procure. Si descrive invece l'ottimo rapporto che il leader della Lega intrattiene (ed è vero) con il presidente della Repubblica e se ne fa discendere una serie di ipotesi circa il dopo-Berlusconi.

Bossi per la verità smentisce, dice di essere contrario a qualsiasi governo «tecnico», ma le voci girano: addirittura evocando il 1994 e il famoso «ribaltone». Ovvio che Berlusconi sia sul chi vive. Sa di essere giunto al passaggio più delicato della sua lunga stagione. E il messaggio inviato ieri sera al Quirinale è un preciso invito al capo dello Stato affinché si astenga dall'entrare in un modo o nell'altro nella dinamica politica.

Terzo. Il presidente della Repubblica dispone di un potere che in effetti disturba non poco Palazzo Chigi: quello di promulgare le leggi. Ce n'è una controversa che arriverà presto al vaglio del Colle: la «prescrizione breve», oggi al vaglio del Senato. Berlusconi non può pensare di vedersela restituita. Anche qui l'avvertimento è chiaro.

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