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Questo articolo è stato pubblicato il 13 maggio 2011 alle ore 06:37.

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Quando vendi 60 milioni di pillole di viagra l'anno a tutto il mondo arabo, non c'è rivoluzione che ti possa preoccupare. Per questo Hussam Taher, industriale farmaceutico, è così ottimista: «Quello che accade in Egitto è un sano terremoto. Poi, dopo un po', tutto sarà di nuovo stabile».

Gli altri invece, anche chi in piazza al-Tahrir ci è andato, temono che la rivoluzione avrà un prezzo. O giocano d'anticipo pagando di tasca propria. Come Salah Abd-Elaziz, generale d'artiglieria in pensione e ora presidente di Oriental Weavers, che ha aumentato fino al 40% gli stipendi dei suoi 11mila dipendenti. «A febbraio, dopo la rivoluzione, erano iniziati gli scioperi in tutto il Paese. Noi abbiamo capito e abbiamo giocato d'anticipo». In questo modo nessuno del sindacato, né il nuovo Governo al Cairo, si è sentito di chiedere danni morali a Oriental Weavers, una produzione quotidiana da 180mila metri quadri di tappeti e moquettes. Perché il proprietario dell'impresa è Muhammed Farid Kanus, amico personale di Mubarak, fuggito all'estero dopo la rivoluzione, inseguito dall'accusa di aver venduto terreni statali come fossero suoi.

Il decimo giorno del Ramadan cui è stata intitolata questa città industriale 60 chilometri a Est del Cairo, è il 6 ottobre 1973: la data della guerra del Kippur. Circa 500mila abitanti, 2mila imprese, 90mila lavoratori, zero disoccupazione e inquinamento. Superati i primi 15 giorni di rivoluzione, quando le banche pretendevano dalle aziende il pagamento anticipato del 100% delle forniture, a Dieci di Ramadan, la pace sociale è tornata.

Nella capitale la storia è diversa. Ieri davanti all'ufficio del primo ministro manifestavano gli insegnanti in sciopero; il giorno prima c'erano gli infermieri e prima ancora i poliziotti venuti dopo i metalmeccanici, gli studenti e i contadini dell'Alto Nilo. L'aumento del 15% dei salari approvato il mese scorso non ha soddisfatto i lavoratori e preoccupato gli investitori. È stata come una prova per tutti coloro che temono l'abbandono delle riforme economiche del vecchio regime e una svolta populista del nuovo. È difficile definire populista anziché necessario l'aumento di 15 punti del salario minimo nazionale che era di 20 dollari al mese; o la riforma del fisco che prevedeva tre aliquote: la più alta, il 20%, uguale per tutti i redditi dai 6.500 dollari ai supermiliardari.

«Ma gli investitori hanno ragione a preoccuparsi», spiega Rashad Abdu, economista dell'Università del Cairo, ora fondatore di un nuovo partito centrista nel fervore politico che agita la capitale. «A gennaio avevamo quasi 2 milioni di turisti, oggi gli alberghi del Cairo sono pieni al 20 per cento. L'anno scorso abbiamo esportato per 19 miliardi di dollari, nel 2011 speriamo di raggiungere il 55% di quella cifra. Investimenti dall'estero: scenderemo da 8 a 2 miliardi». Secondo Crédit Agricole il turismo egiziano calerà dal 5,3 al 2% del Pil. Come la crescita globale, che nel 2010 era stata del 5,2 per cento. Le nuove politiche più populiste faranno salire l'inflazione al 12 e il deficit fiscale dall'8,1 al 10% del Pil.

Al ministero delle Finanze sostengono che il prezzo della nuova libertà è valutabile fra i 12 e i 15 miliardi di dollari. Se è vero, la richiesta d'aiuto fra 3 e 4 miliardi che l'Egitto sta per chiedere all'Fmi non è esorbitante. «La rivoluzione politica ha avuto successo», dice ancora Rashad Abdu. «Quella economica non possiamo raggiungerla da soli. Ci serve aiuto». Più di quello finanziario del Fondo, Abdu pensa alla solidarietà dei Paesi arabi del Golfo e dell'Occidente. «Ci servono investimenti concreti: infrastrutture, fabbriche che diano lavoro, turisti. Ma senza garantire sicurezza, non ci ascolterà nessuno». Non c'è sciopero che costi all'economia egiziana quanto un incidente fra musulmani e copti come quello di sabato al Cairo. «La differenza fra uno degli slogan della rivoluzione, "I hope", e i fatti è questa».

Per l'Egitto, come per tutti i Paesi arabi della Primavera, c'è chi pensa a una "banca per la transizione", simile alla Bers creata per finanziare la mutazione dell'Europa orientale. «Ma agli investitori dobbiamo mandare al più presto un messaggio chiaro, diverso», aggiunge Rashad Abdu. «Riforme che incoraggino gli investimenti e correggano gli errori».

Forse Abdu si riferisce al cambio fatto al ministero dell'Industria: da Rashid Mohammed Rashid, uno dei maggiori promotori delle riforme economiche del vecchio regime, a un comunista, Samir el Sayed. Fra chi ha portato da sei a una settimana i tempi burocratici per avviare un'impresa, incapace tuttavia di dare un aspetto sociale alle riforme; e chi dichiara di essere contrario al libero mercato, ci deve essere qualcosa. È la via di mezzo che ora devono trovare gli egiziani per salvare la loro primavera politica.
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