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Questo articolo è stato pubblicato il 14 maggio 2011 alle ore 08:13.

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IL CAIRO. Dal nostro inviato
«A chi cerca di dividerci rispondiamo che saremo uniti per sempre», dice uno striscione con la croce, la mezzaluna e i colori della bandiera egiziana. Vorrebbe essere la risposta alle violenze di sabato scorso fra copti e islamici che hanno fatto 12 morti. È per questo "venerdì dell'unità nazionale" che la folla ha deciso di tornare in piazza al Tahrir.
Effettivamente nella grande piazza ci sono quasi tutti a manifestare per un Egitto solo, ma ognuno per conto proprio. I partiti d'ispirazione islamica davanti all'Università Americana; i network sociali verso l'angolo con via Talaat Harb; ancora più in là quelli del vecchio partito liberale Wafd, poco prima dei nasseriani che mandano sul loro piccolo palco un giovane rapper. Mettendosi al centro della piazza si riescono ad ascoltare le voci di almeno cinque comizi contemporanei: una incomprensibile cacofonia politica. I copti non ci sono. Manifestano altrove, a 500 metri dalla piazza, sul lungo Nilo davanti alla tv di Stato. Dalla calca emergono solo striscioni di protesta e di preoccupazione: non ce n'è uno che parli di unità nazionale.
Era da un mese che la folla non tornava nel cuore del Cairo e forse non si sentiva più il bisogno che vi tornasse. In realtà non era neppure la gran folla di un tempo: forse 50mila persone, molte delle quali disorientate dagli slogan della manifestazione. «Cristiani e musulmani uniti per liberare la Palestina». Perché quella di ieri era la giornata dell'unità nazionale ma anche della Nakba, la catastrofe del 1948, quando nacque uno Stato ebraico ma non uno per i palestinesi, diventati un popolo di profughi. C'è grande considerazione per la tragedia palestinese e profonda antipatia, forse odio, per Israele. Ma la gente era venuta ad ascoltare altro. «Liberiamo prima noi stessi, occupiamoci della liberazione delle nostre donne», protesta un padre di famiglia venuto con le figlie e le bandierine con la croce e la mezzaluna sovrapposte.
Con la causa palestinese irrompe in piazza al Tahrir la retorica della rivoluzione, quella che non serve alla sua vittoria. Manichini con la stella di David impiccati, corteo improvvisato a favore della Primavera siriana, avanti e indietro per la piazza: ieri ancora sei vittime del regime a Damasco e in altre città. Bandiere della rivolta di Bengasi, discorsi di fuoco contro il dittatore dello Yemen. La notizia dei 15 giorni di detenzione per Suzanne Mubarak, la ex first lady, arriva senza provocare fremiti. È accusata di aver sottratto allo Stato più di 3 milioni di dollari ma tutti sanno che passerà le due settimane di detenzione accanto al marito, in una clinica di Sharm el-Sheikh.
La piazza sarebbe un happening divertente se la crisi economica non incominciasse a farsi sentire, se la sicurezza non fosse diventato un problema serio, se questa non fosse la fase più delicata della transizione verso la democrazia. Sembra che si stiano divertendo tutti. Tranne i Fratelli musulmani che nel loro angolo hanno organizzato un palco professionale, hanno una lista ordinata di iscritti a parlare, dicono cose concrete. Loro sono già in campagna elettorale.
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