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Questo articolo è stato pubblicato il 17 maggio 2011 alle ore 06:55.

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Il cancelliere tedesco, Angela Merkel, con piglio insolitamente decisionista, ha messo subito in tavola le proprie carte. «La Germania - ha detto - preferisce avere un europeo alla guida del Fondo monetario». Primo destinatario il consiglio esecutivo dell'Fmi, riunito ieri sera a tarda ora in seduta straordinaria, ma un messaggio soprattutto per gli Stati Uniti e i grandi Paesi emergenti, Brasile, India e Cina in testa, che stanno esercitando fortissime pressioni per assumere la posizione di comando.

Dominique Strauss-Kahn non si è ancora dimesso e già impazza il toto-candidature per la sua successione. Il modello in vigore da oltre sessant'anni, per cui agli europei spetta la guida dell'Fmi e agli Usa quella della Banca mondiale, era già in crisi prima dello scandalo. Fin dalla nomina di Strauss-Kahn, nel 2007, si disse che quella sarebbe stata l'ultima volta in cui la scelta veniva fatta sulla base del passaporto, prima che del merito.

Le vicende di queste ore anticipano in modo drammatico un copione già previsto per fine giugno, quando tutti ormai si aspettavano le dimissioni di Dsk per concorrere alle primarie socialiste per le presidenziali francesi del 2012. Per ora, la direzione è temporaneamente nelle mani del numero 2, l'americano John Lipsky, il quale peraltro aveva annunciato proprio giovedì scorso l'intenzione di ritirarsi a fine mandato, nel prossimo agosto. Ma la presumibile fine anticipata del mandato di Strauss-Kahn, che segue quelle dei due predecessori, il tedesco Horst Koehler (per assumere la presidenza della Repubblica) e dello spagnolo Rodrigo Rato (per ragioni personali), mette pesantemente in discussione il primato dell'Europa nella nomina del numero uno dell'Fmi. Un ruolo già contestato dagli emergenti, così come l'influenza ormai sproporzionata al suo peso nell'economia mondiale che il Vecchio continente esercita nella ripartizione dei voti, solo in parte corretta dalla recente riforma della governance, e dei seggi in consiglio.

Il vero cambiamento di scenario è stato però determinato dalla crisi degli ultimi mesi per cui, dopo che negli anni scorsi le economie delle aree emergenti hanno rimborsato i prestiti dell'Fmi e in qualche caso ne sono diventate creditrici, la lista dei Paesi indebitati con il Fondo è oggi capeggiata dagli europei, compresi tre membri dell'area dell'euro, Grecia, Portogallo e Irlanda. La gestione della crisi alla periferia d'Europa è oggi la principale partita che il Fondo si trova ad affrontare, insieme a quella degli squilibri globali. Una buona ragione per cui l'Europa non vuol cedere la direzione dell'Fmi, tanto che, prima dello scandalo Dsk, Parigi stava già preparando la candidatura del superministro Christine Lagarde, ben vista anche dagli Usa. Una buona ragione invece per gli emergenti, che lamentano dimensioni eccessive e condizioni troppo accomodanti dei prestiti concessi ai Paesi di Eurolandia, per mettere la parola fine all'esclusiva europea sulla poltrona di numero uno.

In queste ore, i nomi dei papabili si moltiplicano. Già bocciato dal suo stesso Governo il britannico Gordon Brown, le candidature forti vengono dagli emergenti, fra cui la stessa Nemat Shafik, egiziana, il "deputy" spedito dall'Fmi all'Ecofin di Bruxelles. Oppure figure di esperienza come il capo della Banca d'Israele, Stan Fischer, già numero 2 all'Fmi, e gli ex ministri Trevor Manuel (Sudafrica) e Kemal Dervis (Turchia). O esponenti dell'Asia rampante: troppo presto per un cinese, anche per Zhu Min, embedded all'Fmi come consulente di Strauss-Kahn, che andrebbe incontro al veto Usa, si parla dello stimato Tharman Shanmugaratnam, di Singapore, presidente del comitato dei ministri che guida l'Fmi, o dell'indiano Montek Ahluwala (troppo vecchio). I messicani hanno addirittura un poker (l'ex presidente Ernesto Zedillo, il governatore Agustin Carstens, l'ex Guillermo Ortiz e il capo dell'Ocse, Angel Gurrìa), il Brasile l'ex banchiere centrale Arminio Fraga.

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