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Questo articolo è stato pubblicato il 19 maggio 2011 alle ore 07:58.
L'ultima modifica è del 19 maggio 2011 alle ore 07:39.

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Può darsi che sia solo un momento di distrazione dopo lo «stress» elettorale oppure il riflesso dello scoramento. Sta di fatto che in Parlamento si respira un'aria quasi rassegnata nelle file della maggioranza. Molti temono che la legislatura sia finita. Potrebbe resuscitare il giorno dei ballottaggi a Milano e a Napoli, ma i dubbi sovrastano le speranze. Intanto l'incertezza si è tradotta ieri in cinque voti che hanno visto soccombere il governo. Si trattava di mozioni sulle carceri, niente di realmente cruciale per la vita dell'esecutivo. Tuttavia il centrodestra è apparso svagato, con molte assenze soprattutto fra i Responsabili.

Se è un segnale, non è incoraggiante. Però si può capire che la maggioranza sia frastornata. Il Pdl è un organismo abituato ad affidarsi al comandante supremo. Ma in questi giorni proprio il silenzio di Berlusconi, all'indomani della più grave sconfitta della sua stagione, ha in sé qualcosa d'inquietante. La frase rassicurante («il governo è saldo, non corre pericoli») è molto di maniera. Peraltro, nessuno tra i suoi è abituato al «black out», a sentirsi privato della consueta prospettiva di successo. Per molti è quasi il presagio del momento drammatico - e si supponeva remoto - in cui il leader abbandonerà il campo.

La domanda che tutti si pongono è ovviamente: adesso cosa accadrà? Quale destino ci attende? Ma la risposta è avvolta nella nebbia. È così per i capi, per gli stessi Bossi e Berlusconi, figurarsi per il deputato o il senatore di fila. Quel che è certo, il Pdl e la Lega si muovono all'interno di un «puzzle» in cui ogni tassello rinvia a un altro. Non sanno cosa capiterà perchè prima si devono consumare gli eventi: a cominciare dal secondo turno del voto, il 29 e 30 maggio. Quindi è inutile precorrere i tempi. Sul tavolo non esistono soluzioni facili e già scodellate.

Logico che Bossi veda tutte le incognite di una spaccatura con l'eterno alleato. Ma c'è un'ambivalenza nella sua posizione, specchio di una difficoltà strategica che può decidere della vita o della morte della Lega. «Non fatevi illusioni» risponde a coloro che vorrebbero spingerlo alla rottura. «Di sicuro non ci faremo trascinare a fondo» ripete ai suoi, consapevole di quanto sia forte il risentimento nella base leghista contro i berlusconiani. Sono due punti di vista quasi opposti che attendono di essere conciliati in una linea politica.

Il miglior modo per riuscirci è vincere a Milano. La Lega, c'è da crederlo, s'impegnerà. Ma si tratta di spingere alle urne un gran numero di milanesi: circa l'8-10 per cento in più di quanti hanno votato al primo turno (affluenza al 67,5 per cento). Sulla carta è possibile, ma sarebbe un'eccezione assoluta rispetto alla consuetudine dei ballottaggi, in cui la partecipazione è sempre molto più bassa rispetto al primo voto.

Tuttavia non c'è altra via. La Moratti avrà in questi giorni la possibilità di reimpostare lo stile della campagna, correggendo gli errori della prima fase. Ma la sera del 16 si è visto che i voti al sindaco sono stati di due punti inferiori a quelli delle liste: segno che la capacità di traino della candidata è modesta. La prossima volta non ci saranno le liste partitiche: saranno la Moratti contro Pisapia, uno contro uno. Non uno scenario facile per il sindaco uscente. Bossi farà di tutto per vincere la partita. Soprattutto perché, se la perdesse, sarebbe costretto a scelte dolorose per le quali né lui né gli altri massimi dirigenti leghisti sono preparati.

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