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Questo articolo è stato pubblicato il 02 giugno 2011 alle ore 07:36.

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MILANO - Non naviga in buone acque il "Calcio italiano Spa". E se la A viaggia da un paio di stagioni con costi superiori ai ricavi per 170-180 milioni, le serie minori (in termini relativi) se la passano anche peggio. Solo nelle ultime tre stagioni – dal 2007 al 2010 – A, B e Lega Pro hanno macinato perdite per quasi un miliardo di euro (per la precisione, 947 milioni).

I bilanci in profondo rosso – come evidenziato nel «Reportcalcio 2011» realizzato da Arel, Pwc e dal centro studi della Figc (diretto da Michele Uva) – rivelano uno stato di crisi che, senza investimenti strutturali, rischia di retrocedere definitivamente il calcio professionistico tricolore, a vantaggio di Premier, Bundesliga e Liga spagnola. E di renderlo sempre più "permeabile", specie nelle categorie inferiori, alle infiltrazioni della criminalità organizzata e a flussi di denaro di dubbia provenienza.

La situazione può riassumersi in questi termini: la linea dei ricavi (2,5 miliardi) non può crescere ulteriormente, a meno che non si costruiscano stadi di proprietà (solo la Juventus ne disporrà dalla prossima stagione), ma la legge per incentivare la privatizzazione degli impianti, approvata dal Senato, giace da oltre un anno alla Camera; dai diritti tv il sistema percepisce già più di un miliardo all'anno e, mentre in Lega A si litiga ancora sugli ultimi 200 milioni legati ai bacini d'utenza dell'accordo 2010-2011, c'è il concreto pericolo che dalla prossima contrattazione collettiva (per gli anni 2012-2015) gli introiti possano anche leggermente calare; i costi di gestione (2,8 miliardi), imputabili soprattutto agli ingaggi (1,5 miliardi) e agli ammortamenti (0,5 miliardi), al contrario, nonostante l'impegno assunto da molti club di prima fascia di tagliare i compensi, stentano a contrarsi.

D'altronde, stipendi più bassi significano meno campioni in squadra e dunque un minor appeal delle squadre italiane sul mercato, con incassi decrescenti per diritti tv, sponsorizzazioni (369 i milioni ottenuti nel 2009-2010) e biglietti staccati al botteghino (275 milioni). Insomma, si potrebbe avviare una spirale ancora più negativa.
Più nel dettaglio, il prodotto della massima serie vale 2.097 milioni a fronte di 2.267 milioni di costi (1.493 milioni dei quali per spese legate al "personale"). I ricavi arrivano, per quasi due terzi (al netto delle plusvalenze), dalle emittenti radiotelevisive: una teledipendenza sconosciuta alle altre Leghe europee. La Premier, per esempio, che pure ha molti club indebitati, su un fatturato di 2,4 miliardi incassa solo il 50% dai diritti tv. E in Germania, i ricavi complessivi (1.548 milioni) derivano solo per un terzo da questa voce.

La serie B, nel torneo 2009-2010, ha registrato 287 milioni di entrate, in calo rispetto ai 300 della stagione precedente. I ricavi realizzati da sponsor e attività commerciali sono stati pari a 59 milioni, quelli da plusvalenze 73 e quelli da diritti tv 34. Il costo del lavoro è stato di 191 milioni. Oltre agli ingaggi sui costi (382 milioni) pesano anche 61 milioni di ammortamenti e svalutazioni relativi agli acquisti effettuati nelle annate precedenti e scaricati in bilancio in base alla durata dei contratti siglati con gli atleti. Tutto ciò ha generato una perdita d'esercizio di 83 milioni.
Il piano inclinato sul quale si muove il calcio italiano si traduce sul piano patrimoniale in una costante erosione dei valori fondamentali: i debiti globali crescono (in A sono saliti tra il 2008 e il 2010 da 1,9 a 2,3 miliardi, mentre in B sono passati da 367 a 358 milioni); e il patrimonio netto si è, di conseguenza, ridotto da 460 a 406 milioni. Due dati ancora più preoccupanti se visti nell'ottica del divieto progressivo – imposto dal fair play finanziario patrocinato dalla Uefa in vigore da luglio – di immissione nei club di nuovo capitale (ad opera dal patron di turno) per ripianare le perdite.

È chiaro (e lo è ancora di più in questa fase di rallentamento economico) che la Penisola del pallone non può più permettersi 132 società professionistiche. In Inghilterra ce ne sono, del resto, solo 92. In Germania 56, in Spagna 42 e in Francia 40.
Nei progetti di riforma della Lega Pro, nell'arco di un triennio, si dovrebbe giungere a un'unica serie di tre gironi da 20 squadre ciascuno. Oggi le squadre sono 85 (5 in meno rispetto alla scorsa stagione, causa mancanza di squadre ripescabili) mentre nella prossima dovrebbero iniziare a scendere a 76.

Ma la riduzione dei club potrebbe avvenire per "selezione naturale". Già in questa stagione, i club della vecchia serie C, sono stati falcidiati dalle penalizzazioni (con oltre una novantina di punti sottratti in classifica) comminate per i ritardi nei pagamenti di stipendi, contributi e imposte. Sempre più di frequente gli ingaggi agli atleti vengono corrisposti con mesi di ritardo sulle scadenze. E qualche volta non arrivano proprio. A febbraio per protestare i calciatori della Pro Patria, seconda Divisione, hanno occupato per tre giorni con brandine e coperte gli spogliatoi dello stadio Speroni di Busto Arsizio (Varese).

In tre anni, le perdite (provocate da 1,9 milioni di intrioti medi annuali al cospetto di 2,9 milioni di spese) nei club minori hanno fatto diminuire mediamente il patrimonio netto a 55mila euro in Prima Divisione e 42 in Seconda. Se le risorse e i finanziamenti scarseggiano, a poco servirà d'altro canto innalzare i criteri patrimoniali per le iscrizioni al prossimo campionato. Oltre a chiudere questa stagione con i conti in regola, bisognerà presentare per la Prima Divisione una fidejussione di 600mila euro (era di 400mila l'anno scorso) e per la Seconda di 300mila (200mila). Inoltre, ci saranno norme più rigide per la sicurezza degli stadi che si tramuteranno in costi aggiuntivi. L'estate potrebbe portare a un'inesorabile ritirata verso il dilettantismo.

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