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Questo articolo è stato pubblicato il 01 giugno 2011 alle ore 06:36.

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ROMA
Cinque anni fa il tema della crescita era al centro delle sue prime «Considerazioni finali». Ora Mario Draghi chiude in qualche modo anche simbolicamente la sua esperienza alla guida della Banca d'Italia ponendo nuovamente al centro delle sue riflessioni la madre di tutte le questioni: quale Paese lasceremo ai nostri figli, si chiede? Prediche inutili alla Einaudi? In realtà, quanto meno Draghi ha il merito di aver imposto la questione centrale della crescita al centro del dibattito politico ed economico.
Crescevamo stabilmente un punto, un punto e mezzo al di sotto della media europea prima della «grande crisi» del 2008-2009, cresciamo meno anche adesso. Il gap è strutturale, come mostrano le più recenti statistiche europee sull'impatto della crisi sui 27 stati membri dell'Unione. Il risultato è stato devastante su tutte le economie del vecchio continente: nel 2009 la contrazione del Pil a livello di Unione è stato del 4,2%, con l'Italia in profondo rosso con un -5,2%, la Germania con un -5,2%, la Francia -2,6%, il Regno Unito -5 per cento. Nel 2010 il Pil dell'eurozona è aumentato dell'1,8%, contro il segno meno (4,1%) dell'anno precedente.
Se analizziamo la performance dei nostri vicini, abbiamo la conferma che la Germania ha ripreso a correre (3,6%), la Francia marcia a ritmi più contenuti (1,5%), l'Italia non si sposta da un modesto 1,3 per cento. I consumi privati e gli investimenti fissi hanno fornito un contributo alla crescita per lo 0,6 e lo 0,5%, mentre un ampio sostegno alla crescita lo si deve alla ricostituzione delle scorte (0,7 punti percentuali). Quest'anno il Pil è indicato in aumento dell'1,1%, nel 2012 dell'1,3%, per poi salire all'1,5% e all'1,6% nel 2013 e 2014.
Ben si comprende dunque la preoccupazione di Draghi, in assoluta sintonia con quanto espresso dalla presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che ha puntato il dito proprio sull'intero decennio di mancata crescita. Nel 2000, crescevamo al 3,7%, poi l'inesorabile discesa: 1,8% nel 2001, 0,5% nel 2002, 0 nel 2003, 1,5% nel 2004, 0,7% nel 2005. Dopo la buona performance del 2006 (2%), la discesa è stata continua: 1,5% nel 2007, -1,3% nel 2008, -5,2% nel 2009.
Se si riuscisse a spostare l'asticella almeno al 2%, il percorso di rientro dal deficit e di riduzione del debito, così come previsto dalla nuova governance economica europea, avverrebbe senza eccessivi traumi. In poche parole, se continueremo a crescere al ritmo dell'1% l'anno impiegheremo cinque anni per tornare ai livelli precrisi, mentre - come ha spiegato di recente lo stesso Draghi - la riduzione del debito chiesta al nostro paese «non sarebbe drammatica con una crescita al 2 per cento».
L'analisi dei tecnici di via Nazionale è che non vi siano al momento segnali che autorizzino a ipotizzare ritmi sostenuti di crescita: «Nel primo trimestre del 2011 l'espansione del Pil è stata appena positiva, ampiamente inferiore a quella media dell'area. Le informazioni congiunturali prefigurano per i mesi successivi la prosecuzione della ripresa ciclica a un ritmo modesto».
Da quando convenzionalmente si è fissata la fine della recessione, vale a dire dall'estate del 2009, il nostro Pil ha recuperato solo due dei sette punti percentuali persi nel corso della crisi. L'espansione dell'attività è stata trainata «soprattutto dalle esportazioni, mentre la ripresa della domanda nazionale resta debole». L'analisi è dettagliata e conferma i dati che emergono dalle statistiche ufficiali: i consumi delle famiglie hanno ancora risentito della flessione del reddito disponibile reale e delle deboli prospettive del mercato del lavoro. «La propensione al risparmio si è ridotta, proseguendo nella tendenza in atto da due decenni. Il saggio di risparmio delle famiglie italiane è ora sui livelli più bassi fra i maggiori Paesi dell'area dell'euro».
In particolare, il reddito disponibile lordo delle famiglie consumatrici è diminuito dello 0,5% in termini reali per un'erosione che tocca il 4,6% nel complesso dell'ultimo triennio. La modesta ripresa del reddito nominale (+1% dal -3,1% nel 2009) è stata più che compensata dall'inflazione che comunque è prevista tornare intorno al 2% nella media del 2012. «Il calo del reddito disponibile in termini reali, in presenza della crescita pur modesta della spesa, si è tradotto in un'ulteriore riduzione della propensione al risparmio che nel 2010 è scesa all'8,9% contro il 12,6% dell'inizio dello scorso decennio e il 18% circa nella media degli anni Novanta».

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