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Questo articolo è stato pubblicato il 03 giugno 2011 alle ore 06:38.
ROMA.
Per i due referendum sull'acqua, promossi dall'Idv, dagli ambientalisti e dalla sinistra estrema, tutto il male viene dalla «privatizzazione» dell'acqua e dagli aumenti di tariffe che oggi restano molto più basse della media europea. I promotori non vanno per il sottile quando si tratta di accomunare concessioni a privati, che oggi rappresentano solo il 5% delle gestioni idriche italiane, e società miste pubblico-privato (o quotate) dove il socio privato è in minoranza (pari al 36% del mercato). Il «privato» in cerca di profitti a danno dell'utente è il diavolo per i referendari e così la società per azioni.
Se i due referendum idrici raggiungessero il quorum e vincessero i sì, si tornerebbe ai regimi dilaganti dell'«in house» (aziende controllate al 100% dagli enti locali) e delle gestioni dirette dei comuni, nell'acqua e negli altri servizi pubblici locali, come autobus e rifiuti. Già oggi queste forme di gestione pubbliche servono il 60% della popolazione e portano responsabilità gravi nella qualità dei servizi idrici italiani. Il voto darebbe l'addio al percorso virtuoso e contraddittorio verso le gestioni imprenditoriali, cominciato nel 1994 con la legge Galli. Addio alla copertura dei costi operativi e degli investimenti con la tariffa come vogliono i principi europei, quelli di buona gestione manageriale e quelli dell'ambientalismo rigoroso. Addio ai programmi di investimento stimati oggi da Utilitatis (centro studi vicino alle aziende pubbliche) a 64 miliardi: servono a ridurre le perdite della rete acquedottistica (che restano al 38% dell'acqua immessa) e a realizzare impianti di depurazioni necessari per portarci agli standard europei.
Il sistema pubblico idealizzato dai referendari presenta già oggi vistosi limiti di azione evidenziati dalla Relazione al Parlamento del Conviri, il comitato di vigilanza sulle risorse idriche che raccoglie e sistematizza i dati sul servizio idrico: le gestioni in house - dice l'ultima relazione 2010 - massimizzano il conflitto di interessi degli enti locali proprietari-regolatori-difensori degli utenti, hanno un rapporto più basso delle spa miste fra investimenti programmati e realizzati, che è fermi complessivamente al 56%, in numerosi casi «hanno intrapreso un'incauta politica di assunzione del personale» che ha fatto lievitare i costi operativi, hanno difficoltà a finanziare gli investimenti con prestiti bancari per la diffidenza degli istituti di credito, fanno maggiormente ricorso a fondi pubblici che poi vengono parzialmente annullati o rinviati, sono soggetti al «rischio regolatorio che si verifica tipicamente nei casi di mancato adeguamento tariffario, di ritardi in adempimenti obbligatori, di ingiustificati cambiamenti, di scelte di investimento, di scelte incongrue in materia di riconoscimento dei costi». Senza contare che la bassa tariffa auspicata dai referendari lascia in genere disavanzi di bilancio da ripianare a pie' di lista con le tasse generali: con il risultato di non responsabilizzare chi consuma acqua e di scaricare sulla generalità dei cittadini i costi del servizio.
Non funziona, ovviamente, neanche il paradigma del pubblico sempre brutto e cattivo, come dimostrano casi virtuosi di gestione pubblica, per esempio nella città di Milano: la tariffa media più bassa d'Italia, costi contenuti, poche perdite, ma anche un contenuto livello di investimenti pro capite. Gestito da Metropolitana milanese, che si è reinventata partendo dalla progettazione del metrò, l'ambito milanese piccolo e molto popolato (condizioni ideali per le public utilities) marcia a basso regime e rende contenti (almeno per ora) i milanesi.
Il punto è che i guasti del sistema idrico italiano e le difficoltà a intraprendere la strada della gestione imprenditoriale «non dipendono tanto dalla modalità di gestione, pubblica o privata, quanto dall'assenza di una politica dell'acqua in Italia», come dice Roberto Passino, presidente dimissionario del Conviri mentre si attende la costituzione della nuova agenzia di vigilanza dell'acqua, prevista dal decreto legge per lo sviluppo. Alcune regioni - come le "rosse" Toscana ed Emilia-Romagna - si sono affrettate ad attuare il modello della legge Galli. Il "caso Toscana" è agli antipodi di quello milanese: società miste controllate dal pubblico ma con socio industriale privato, affidamento con gara concorrenziale, incrementi tariffari tra i più sostenuti in Italia, livello di investimenti elevato. Forte controllo pubblico, gestioni imprenditoriali, motore a pieno regime.
Aldilà dell'impegno delle singole regioni è però evidente come sia il quadro nazionale a non decollare: manca una politica per l'acqua in Italia. A 17 anni dall'approvazione della legge Galli, il 34% della popolazione ancora risponde al vecchio regime tariffario e gestionale frammentato comune per comune. Gli ambiti territoriali ottimali definiti per le gestioni restano troppi, frammentati e slegati dai bacini idrografici. In molti ambiti continuano a sovrapporsi vecchie gestioni «salvaguardate». La regolazione resta debole e solo lo spettro del referendum ha indotto il Governo a inserire nel decreto legge per lo sviluppo un'agenzia nazionale che dovrebbe maggiormente tutelare gli utenti. La qualità del servizio idrico per gli utenti resta scadente al punto che il Conviri ha messo a punto un elenco di indicatori gestionali da far rispettare ai gestori pubblici e privati. La realizzazione degli investimenti non supera il 56% di quanto era stato programmato e si ferma al 36% quando a finanziare i lavori è il contributo pubblico. L'asimmetria informativa tra gestori, regolatori e utenti è enorme indipendentemente dal tipo di gestore e resta carente il quadro informativo nazionale. Non sono stati introdotti meccanismi di partecipazione dei cittadini ai processi decisionali che pure erano previsti dalla direttiva Ue 2000/60. La spesa media annua delle famiglie per acqua, depurazione e fognature è cresciuta del 63% dal 2002 al 2008 ma nessuno è in grado di dire in che misura abbia contribuito a migliorare il servizio, a finanziare gli investimenti, a dare al settore idrico uno sviluppo stabile nel tempo. Non solo, sono rimaste nei cassetti del ministro dell'Ambiente le due proposte (l'ultima è del 2008) di riforma del metodo di calcolo tariffario. Tutte politiche mancate che non saranno certo attivate dai quesiti referendari, strabici rispetto ai problemi reali dell'acqua in Italia e dannosi nel vagheggiare un ritorno all'indietro di 20 anni.