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Questo articolo è stato pubblicato il 06 giugno 2011 alle ore 06:38.

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Lina
Palmerini Dopo quasi 18 anni di blocchi contrapposti e congelati su uomini della vecchia generazione, una sconfitta elettorale regala il primo salto generazionale di leadership. La scelta di Angelino Alfano alla guida del Pdl dà finalmente spazio e mette alla prova quella generazione di quarantenni rimasti due passi indietro, soffocati dal tappo dei sessantenni e settantenni di centro-destra e di centro-sinistra. Finora abbiamo visto una politica bloccata su un torneo di senior: un fatto apprezzabile sul piano dell'esperienza che però è diventato patologia per assenza di ricambio e di apertura verso le nuove leve. In un mondo radicalmente cambiato sul piano economico e geopolitico, in un quadro internazionale occidentale dominato da leader e premier di 40-50 anni e, infine, in un Mediterraneo mosso dalle rivoluzioni under-30 del Maghreb, le immagini della politica italiana sembrano di repertorio più che di attualità.
Aver visto per due volte Silvio Berlusconi combattere con il suo coetano Romano Prodi è stato già abbastanza e, adesso, vedere che a duellare contro di lui (74 anni) ci sono i sessantennni ex Pci Massimo D'Alema e Pierluigi Bersani, dà solo un senso di reducismo. E rende più evidenti le spinte conservatrici nel Pd di chi giudica i "rottamatori" solo giovani capricciosi e impazienti.
Invece proprio l'arrivo di Alfano mette nell'agenda dei Democratici il tema della successione come un'urgenza fatta quantomeno di immagini. Pensare a un dibattito tra un quarantenne come Alfano e un sessantenne come Bersani non regala al Pd alcun vantaggio. Anzi, a maggior ragione adesso rischia di apparire come il partito degli apparati e dei burocrati di un ex grande mondo antico, quello del Pci.
Del resto se le amministrative sono state una sberla per il Pdl e la Lega, lo sono state in modo diverso anche per il partito di Bersani, che ha potuto cantare vittoria principalmente grazie a personalità nuove trainate dalle primarie. Cioè da un meccanismo di selezione che niente ha a che fare con le cooptazioni come – in qualche modo – sono state le primarie del segretario Pd fino a questo momento. Il passaggio nei gazebo non solo sarà ineludibile ma, dopo il caso Milano, forse si potrà anche vedere una vera gara senza che le correnti – o gli accordi preventivi, come fu per Veltroni – scrivano l'esito sin dall'inizio.
Insomma, la mossa del Cavaliere che mette Alfano in pista dà al movimento dei rottamatori di Renzi un senso nuovo: non più quello di un assalto sgomitante dei giovani sui vecchi, ma di un tema politico prioritario e urgente per un centro-sinistra che voglia competere per la vittoria alle prossime elezioni. Il Pd – ora – è costretto a un salto generazione speculare a quello del Pdl e anche da questa parte si impone un passaggio di consegne "padri-figli" attraverso primarie inedite e contese come sono state quelle milanesi.
Naturalmente parliamo di leader di partito, perché la scelta del premier sarà oggetto di altre trattative politiche e dipenderà soprattutto dalle alleanze che centro-destra e centro-sinistra porteranno a casa. Certo, lo Statuto del Pd prevede che il segretario sia anche il candidato premier della coalizione, ma al momento le incertezze su alleati e legge elettorale sono talmente tante che il problema è rinviato.
È ovvio che quanto detto per il Pd si pone anche per la Lega. Umberto Bossi sa che la sua leadership – anche se ha caratteristiche diverse – è legata a quella di Berlusconi. Ma ora che c'è Alfano anche per il Senatur si fa più vicina la designazione di un suo giovane successore. E diventa necessario il lancio di un delfino e non solo di un "trota".
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