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Questo articolo è stato pubblicato il 06 giugno 2011 alle ore 06:38.

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Marco Biscella
In Europa l'economia sociale rappresenta il 10% di tutte le imprese, vale a dire 2 milioni di realtà, o il 6% dei posti di lavoro totali, e - come ha ricordato in una risoluzione sul tema il Parlamento europeo - «presenta un notevole potenziale in termini di generazione e mantenimento di un'occupazione stabile, dovuto soprattutto al fatto che è improbabile che tali attività, per loro natura, siano delocalizzate». Del resto, la non sostenibilità del welfare pubblico impone sempre più di snellire la macchina pubblica con una riforma liberista, o meglio sussidiario-cooperativa, aprendo cioè la programmazione, la gestione e l'erogazione di servizi a imprese sociali e non profit. Anzi, la Ue chiede che «gli interessi dell'economia sociale non solo siano rispettati, ma anche privilegiati». Ma chi si è mosso in questa direzione?
Una risposta arriva dal working paper "Sistemi di finanziamento pubblico dell'impresa sociale e non profit" realizzato da Finlombarda, che ha confrontato l'evoluzione dei quadri normativi di riferimento e degli interventi finanziari in Italia, Belgio, Francia, Regno Unito e Spagna (con riferimento alla regione dell'Andalusia).
La scelta di dare una dignità legislativa più allargata all'impresa sociale, sottolinea il working paper, «vede l'Italia protagonista insieme al Belgio, che nel 1993 ha adottato una legge istitutiva della società a finalità sociale (Sfs) e il Regno Unito, che nel 2003 ha approvato la legge istitutiva delle Community interest company. Oggi le imprese sociali individuate dalla normativa italiana non arrivano neanche alle mille unità, forse per mancanza di giuste norme o incentivi adatti. Sta di fatto che la realtà dell'impresa sociale è molto più significativa di quanto non si pensi: un potenziale di 6mila imprese sociali rappresenta una fetta importante del mondo produttivo di beni e servizi del nostro Paese, quota che è destinata a crescere più di quanto si preveda».
In Europa, l'impresa sociale si è sviluppata utilizzando soprattutto la forma giuridica della cooperativa e dell'associazione, mentre sui settori di attività sta emergendo una «chiara tendenza evolutiva a liberalizzare gli ambiti di intervento» (soprattutto nel Regno Unito) al di là dei tradizionali settori di attività dell'inserimento lavorativo e della produzione di servizi di welfare.
Il caso più interessante è senz'altro quello del Regno Unito. Cinque le policy adottate, che offrono però «la più completa copertura della gamma di strumenti a disposizione, a partire da tutte le forme tecniche di intervento finanziario fino alle forme di supporto sia monetario (basate su incentivi fiscali) sia non monetario (attraverso l'erogazione di servizi di consulenza)». Anzi, nella misura "Community investment tax relief", i beneficiari non sono le imprese sociali, bensì gli investitori che decidono di indirizzare i propri risparmi verso questo comparto. Innovativa anche la scelta di dedicare una serie di iniziative focalizzate sulla partecipazione del cittadino utente, in una logica di sussidiarietà orizzontale coerente con il concetto di Big society lanciato dal premier David Cameron.

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