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Questo articolo è stato pubblicato il 11 giugno 2011 alle ore 09:29.

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Ancora una volta molto probabilmente sarà il quorum a decidere l'esito della consultazione referendaria che si svolgerà domani e lunedì. Come dice il quarto comma dell'articolo 75 della Costituzione il voto popolare è valido se partecipa la maggioranza degli aventi diritto, vale a dire il 50% più uno degli elettori iscritti nelle liste elettorali. A partire dal referendum sul divorzio nel 1974, e comprendendo quelli di oggi, gli elettori italiani sono stati convocati alle urne 16 volte per votare su 66 quesiti referendari di tipo abrogativo. Altri due referendum di carattere confermativo si sono tenuti nel 1989 e nel 2001. I referendum abrogativi sono stati due negli anni settanta, tre negli anni ottanta, sette negli anni novanta e due nel nuovo millennio. In cinque casi su tredici non si è raggiunto il quorum. Come si può vedere nel grafico l'ultima volta che la partecipazione elettorale ha superato il 50% è stato nel 1995. L'affluenza più alta si è verificata nel referendum sul divorzio (87,7%), la più bassa in quello sulle modifiche della legge elettorale nel 2009 (23,3%).


L'esperienza referendaria italiana può essere suddivisa in tre periodi: la stagione del no (dal 1970 al 1985), quella del sì (dal 1986 al 1993) e quella del non voto (1994-2009). Durante il 'periodo del no' il quorum del 50% è sempre stato superato e l'elettorato ha sempre respinto le richieste di abrogazione. Nel 'periodo del sì' ha sempre prevalso una maggioranza di voti favorevoli alle richieste di abrogazione e solo in una delle consultazioni - quella del 1990 sulla caccia e l'uso dei pesticidi in agricoltura - il quorum non è stato raggiunto. Nel 'periodo del non voto' il rapporto tra le richieste di abrogazione approvate e quelle rigettate è stato di due a uno ma la caratteristica saliente di questa fase è il fatto che il quorum è stato raggiunto soltanto una volta, nel 1995, quando i quesiti referendari erano addirittura 12. Da allora gli elettori hanno disertato in maniera massiccia le urne. Tra l'ultimo referendum valido nel 1995 e l'ultimo non valido nel 2009 la differenza nel livello di partecipazione è di più di 30 punti percentuali!


Un calo di questo genere non si può spiegare solo come il risultato della crescente disaffezione degli italiani nei confronti della politica. Se questo fosse vero dovremmo trovare un fenomeno simile anche a livello di elezioni politiche. Ma così non è. Certo, la percentuale di coloro che vanno a votare per eleggere deputati e senatori è scesa rispetto al passato ma in misura molto minore di quanto sia avvenuto a livello di referendum. È vero anche che la percentuale di votanti nelle consultazioni referendarie è sempre stata inferiore a quella delle consultazioni politiche per tutta una serie di motivi che vanno dalla percezione di una minore posta in gioco alla assenza di candidati. Ma questo cosiddetto 'astensionismo aggiuntivo' ha assunto negli ultimi dieci anni proporzioni tali da chiamare in causa altri fattori. Tra questi il più significativo è certamente il fatto che la presenza di un quorum così elevato rappresenta un incentivo molto forte a favore di una strategia di non mobilitazione dell'elettorato da parte di quei partiti e di quei gruppi contrari alla richiesta di abrogazione delle leggi sottoposte a referendum. Una strategia inaugurata con successo dai 'cacciatori' nel 1990 e poi diventata uno strumento largamente utilizzato. La possibilità di sommare l'astensionismo degli indifferenti con quello dei contrari alla abrogazione rappresenta un vantaggio tale da rendere inefficaci gli appelli alla deontologia democratica. A partire dal 1995 questa strategia ha sempre avuto successo. Questa volta sia per la natura dei quesiti sottoposti al voto sia per il clima che si respira dopo le recenti elezioni amministrative il quorum potrebbe essere raggiunto. Nessuno può dirlo con certezza. Ma se succederà sarà un altro segnale significativo che qualcosa sta cambiando nel corpo elettorale.

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