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Questo articolo è stato pubblicato il 12 giugno 2011 alle ore 14:45.

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Kemal Kilicdaroglu,leader del principale partito di opposizione della Turchia, il partito del popolo repubblicano (CHP),(Afp Photo)Kemal Kilicdaroglu,leader del principale partito di opposizione della Turchia, il partito del popolo repubblicano (CHP),(Afp Photo)

La Turchia va alle urne con un orecchio teso ai risultati e l'altro alle notizie dal confine siriano dove si ammassano migliaia di profughi in fuga dal regime di Bashar Assad. Ankara, dopo il voto, potrebbe annunciare un intervento militare nel Nord della Siria per creare una "fascia di sicurezza". Che questo avvenga o meno, è chiaro che per la Turchia il mondo è cambiato da un pezzo.

La novità più evidente è che l'Europa ha "perso" la Turchia: l'ingresso nell'Ue appare un argomento accademico, la primavera araba è una questione centrale, di sicurezza nazionale e di politica estera, legata agli orizzonti immediati e futuri di questo Paese, condivisi dal partito di governo Akp ma anche dall'opposizione laica e repubblicana.

Il cambiamento epocale è stato questo: per ottant'anni la Turchia secolarista di Ataturk si era tenuta fuori dai conflitti della regione, se non quando interessavano la questione curda o si trattava di muovere le truppe a Cipro e nell'Egeo. Fu così che i turchi subirono l'ondata dei profughi iracheni nel '91 e nel 2003 rifiutarono il passaggio delle truppe americane in marcia su Baghdad. Sotto l'ombrello della Nato dai tempi della guerra fredda, impegnata in estenuanti trattative con Bruxelles, la Turchia appariva un elemento staccato dal resto del Medio Oriente.

Ancora oggi in parte lo è sotto il profilo economico - il 60% degli scambi avviene con l'Europa - ma ogni giorno di più deve fare i conti con la sua geografia e i suoi interessi strategici, i lunghi confini con la Siria, 800 chilometri, con l'Iran e l'Iraq. E con la sua cultura: un Paese musulmano, moderato e conservatore, che non potendosi integrare in Europa non poteva restare isolato dai vicini che ha governato per alcuni secoli.

La Turchia cambia pelle sotto i nostri occhi. Mentre Erdogan rilancia una soluzione per la Libia, offrendo a Gheddafi non meglio precisate garanzie per l'esilio, potrebbe essere chiamato a decisioni fatali. L'ipotesi che l'esercito penetri in territorio siriano per creare una zona cuscinetto non è così remota: accadde in Iraq alla fine degli anni 90 per controllare la guerriglia curda. Mentre gli Usa preparavano la caduta di Saddam la mossa apparve trascurabile: quando però gli americani costrinsero i militari a lasciare le postazioni in Iraq i turchi se la legarono al dito. Ignoriamo troppe cose che da noi appaiono secondarie. Per questo poi abbiamo cattive sorprese.

La situazione ora è ben diversa. Erdogan aveva puntato forte su Assad. La repressione delle proteste è stato un duro colpo alle prospettive di fare di Damasco un alleato per la penetrazione turca in Medio Oriente. Non solo, adesso sono a rischio le frontiere tracciate negli anni Venti che ridussero l'impero ottomano all'Anatolia e a un lembo d'Europa. La Turchia, dopo l'Iraq, non è disposta a fare da spettatore alla disgregazione di un altro Paese ai suoi confini. Ma c'è un altro paradigma, interno, che è profondamente mutato.

I generali e i laici non sono più i monopolisti del nazionalismo turco. C'è un nazionalismo musulmano, di cui è portavoce Erdogan, che si è fatto strada. Il potere dei militari, anche per le rivelazioni sui piani golpistici, è stato ridimensionato: negli ultimi tempi è finito dietro le sbarre un generale su dieci. Adesso sono i militari che devono ascoltare le istanze dei politici. Per questa nuova Turchia, che pure ha accolto i modelli democratici richiesti da Bruxelles, l'Unione non è più un traguardo. La Turchia è un'occasione perduta e l'Europa di oggi, impantanata anche in Libia, sul Bosforo conta sempre di meno.

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