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Questo articolo è stato pubblicato il 12 giugno 2011 alle ore 08:13.

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In Borsa con le borse. Potrebbe essere questo lo slogan condiviso dai più prestigiosi marchi del lusso italiano e internazionale. Per promuovere lo status symbol per eccellenza dell'appetitoso mercato degli accessori femminili i big brand firmano assegni cospicui alle celebrities, che sfoggiano modelli storici o appena lanciati per le strade e sui red carpet.
E i risultati sono tangibili: le borse e più in generale la pelletteria – le cui vendite nel segmento lusso sono stimate da Bain & Company e Fondazione Altagamma in 23 miliardi di euro nel 2010 – sono ormai la fetta più importante del fatturato. Basta analizzare il prospetto informativo dell'imminente quotazione nel listino di Hong Kong di Prada: per il marchio principale, Prada appunto, la pelletteria pesava per il 39,4% dei ricavi nell'esercizio fiscale al 31 gennaio 2009, è aumentata al 45,8% nel 2010 per balzare a poco meno del 50% (49,6% per l'esattezza) nel 2011. In soldoni: 499, 554 e 786 milioni di euro rispettivamente. E per il brand Miu Miu, nato come divertissement di Miuccia Prada e trasformatosi in fretta in un business da 353 milioni nel 2011, il peso della pelletteria sfiora il 64%.
Ma se per il gruppo Prada nel suo complesso l'incidenza della pelletteria è la metà del totale, per altre griffe si va addirittura oltre. «Solo per il marchio Louis Vuitton – dice Pierre Lamelin, luxury good analyst di Crédit Agricole Cheuvreux – la mia stima è che le borse pesino per il 75-80% dei 5,5-6 miliardi di euro di vendite realizzate l'anno scorso». In cifra assoluta, un'enormità che arriva nella parte alta della forbice fino a 4,8 miliardi di euro tra borse, tracolle, trolley e valigie, principalmente concentrata nel modelli Speedy in tela da 485 euro, non certo posizionata nel segmento alto di gamma, ma utilissima per gonfiare la redditività.
La percentuale di Vuitton è superata solo da Bottega Veneta, controllata dalla francese Ppr, che nel 2010 ha venduto borse per l'83% del giro d'affari, mentre Gucci era al 57%, Hermès alla metà, Burberry e Yves Saint Laurent a un terzo ciascuna, Tod's Group al 16%. Di Ferragamo, pure in rampa di lancio per l'Ipo, si saprà qualcosa di dettagliato dal prospetto informativo. Ma nell'ultimo dato disponibile, riferito al 2008, le scarpe pesavano per il 38% e, dunque, è facile ipotizzare che la quota della pelletteria fosse più elevata. Su Chanel, azienda privata, buio totale.
Ma è in termini di profittabilità che le borse si rivelano ancora più interessanti, visto che generano margini superiori a quelli totali: l'Ebit di Prada Group è del 20,4% nel 2010, sempre analizzando il filing per il collocamento, del 28,7% quello del brand Gucci (pre-costi centrali), del 27,8% quello di Hermès, del 22,4% quello di Ppr Luxury e del 20,3% quello di Tod's Group. Il più elevato, tanto per cambiare, è l'Ebit di Vuitton, «la cui stima – aggiunge Lamelin – è del 40-45%, probabilmente più nella parte alta della forbice».
I dati dettagliati non si leggono nei bilanci. «Ma è intuitivo – conclude l'analista di Cheuvreux – che le borse siano più profittevoli delle scarpe o dell'abbigliamento, anche perché le aziende non devono fare i conti con le taglie. Inoltre i modelli continuativi riducono il contenuto moda e, dunque, i rischi della collezione, tagliando i saldi a fine stagione, con conseguenze positive sui margini».
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