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Questo articolo è stato pubblicato il 14 giugno 2011 alle ore 07:51.

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ROMA - Apparentemente Silvio Berlusconi ostenta sicurezza. Il voto rereferendario non avrà effetti sul governo, sostiene il premier, convinto che a questo esecutivo «non ci sono alternative». Le minacce che arrivano dalla Lega però non non vengono sottovalutate. Calderoli è stato chiaro, il Carroccio non rimarrà in attesa della «terza sberla», dopo la débàcle delle amministrative e quella referendaria.

Bossi si appresta a lanciare domenica il suo ultimatum da Pontida ma il Cavaliere assicura ai suoi che non sarà il Senatur a staccargli la spina. Non ora almeno. E dunque c'è ancora il tempo per tentare un salvataggio della legislatura e cercare di recuperare parte della fiducia dell'elettorato.

Il dato del referendum è persino peggiore di quello delle amministrative, visto che il voto questa volta è omogeneo su tutto il territorio nazionale e dice che gran parte degli italiani non ha condiviso la scelta del premier (e di Bossi) di disertare le urne. Berlusconi ne prende atto pubblicamente («gli italiani hanno mostrato una volontà netta»). «Serve la svolta e serve ora», ripete il Cavaliere. Gli occhi sono puntati inevitabilmente sul ministro dell'Economia. Il no di Maroni a un governo tecnico, e quindi a un ipotetico governo Tremonti, è musica per le orecchie del premier, che al titolare di via XX settembre continua a chiedere di mettere qualcosa di sostanzioso sul piatto della riforma fiscale.

Nel Pdl però alla preoccupazione si sta pian piano sostituendo un vero e proprio smarrimento. La consapevolezza che ‐ come ripetono ormai in molti ‐ «Berlusconi non tira più», spinge a cercare soluzioni, alleanze per precostituire il proprio futuro politico. Si guarda con insistenza a Casini, anche se le dichiarazioni del leader dell'Udc che chiede di andare subito al voto lasciano poco spazio a una trattativa con il terzo polo. Nessuno pensa che la verifica programmata della prossima settimana possa tradursi in una sfiducia all'esecutivo. Denis Verdini ha fornito al premier ampie rassicurazioni in tal senso, tant'è che il premier ripete ad alcuni suoi interlocutori che «arriveranno voti in più». Il completamento del governo, a partire dal ministero delle Politiche comunitarie (a cui guarda anche la Lega) potrebbe tornare utile. «Ma segnali di mal di pancia ne arriveranno...», sostengono alcuni parlamentari pidiellini, pronti a scommettere in alcune sconfitte della maggioranza nell'aula della Camera ma anche in quella del Senato fin dai prossimi giorni.

La verità è che ormai tutti guardano al dopo Berlusconi, pur non avendo contezza di quando questo «dopo» si realizzerà. «Un ciclo è finito. Anche se a mio avviso non si deve dimettere subito, Berlusconi comunque nel 2013 non dovrebbe ricandidarsi», dice a Radio 24 Stefania Craxi. La riflessione pubblica del sottosgretario, che non esclude neppure di lasciare il governo e il partito, non è affatto isolata. E Berlusconi è il primo a saperlo. Il premier non teme una rivolta ma avverte chiaramente che l'incantesimo durato per quasi un ventennio si è rotto. In quei 30 milioni che in questo week end sono andati a votare, ce ne sono molti che alle scorse politiche lo avevano scelto e che ora invece mostrano il loro dissenso.

E anche se nelle dichiarazioni ufficiali la prima fila del Pdl si preoccupa di sottolineare che quello di ieri «non è un voto politico», che chiedere come fa Bersani le elezioni anticipate è «improprio» (Alfano), che il governo ha i numeri per «andare avanti», la sensazione di essere giunti al capolinea sta prendendo il sopravvento. «Ormai è finita, prendiamone atto, si tratta di capire solo quando verrà tirata la linea», sostiene un deputato da sempre fedelissimo del Cavaliere, che non riesce a reprimere un moto di rabbia: «Ma è possibile che dopo tutto quel che sta succedendo, il mio presidente del Consiglio non trovi di meglio che ironizzare sul bunga bunga davanti al premier israeliano?».

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