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Questo articolo è stato pubblicato il 16 giugno 2011 alle ore 07:54.

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Una nuova serie di potenti esplosioni sono risuonate a Tripoli nelle prime ore di oggi, in particolare nel centro della capitale della Libia: lo hanno riferito fonti giornalistiche presenti in città, secondo cui colonne di fumo sono state viste levarsi al di sopra di Bab al-Aziziyah, il quartiere alla periferia meridionale dove si trova la residenza-bunker di Muammar Gheddafi, più volte presa di mira durante i raid aerei della Nato.

Nato nega uccisione dei civili
La Nato ha negato di aver ucciso 12 civili in un raid aereo compiuto a sud di Tripoli. "La Nato non ha effettuato alcun raid aereo ieri nella città di Kikla", ha detto all'Afp un funzionario dell'Alleanza atlantica. Ieri la tv di Stato libica aveva detto che 12 persone erano state uccise in un raid aereo contro un bus alle porte della città di Kikla.

Dal quartier generale di Napoli il tenente generale Charles Bouchard ha definito lo stato del conflitto libico "positivo", precisando che molto probabilmente la Nato riuscirà a completare la sua missione "senza l'ausilio di truppe via terra. Stiamo ricevendo risorse adeguate per completare le operazioni e svolgere il nostro mandato", ha aggiunto Bouchard.


Saif Gheddafi chiede elezioni
«Elezioni subito, con la supervisione internazionale: il mondo scoprirá quanto Gheddafi è popolare». È la soluzione prospettata da Saif Al Islam, figlio di Muammar Gheddafi, «per uscire dall'impasse in Libia». Intervistato dal 'Corriere della Será il figlio del rais spiega la sua idea sulle elezioni che, dice, «si potrebbero tenere entro 3 mesi. Al massimo a fine anno. E la garanzia della loro trasparenza potrebbe essere la presenza di osservatori internazionali. Non ci formalizziamo su quali.
Accettiamo l'Unione europea, l'Unione africana, le Nazioni unite, la stessa Nato. L'importante è che lo scrutinio sia pulito».

Saif non ha dubbi sull'esito: «La stragrande maggioranza dei libici sta con mio padre e vede i ribelli come fanatici integralisti islamici, terroristici sobillati dall'estero, mercenari agli ordini di Sarkozy». Il 39enne figlio di Gheddafi non risparmia infine dure critiche all'Italia: «da quello che possiamo capire qui a Tripoli, il vostro premier è in difficoltá, pare inevitabile la sua prossima sconfitta elettorale. Bene, non possiamo che gioirne. Lui e il ministro degli Esteri Frattini si sono comportati in modo abominevole con noi».

Gli Stati Uniti presentano il conto: 715,9 milioni di dollari
Le operazioni in Libia sono costate finora agli Stati Uniti 715,9 milioni di dollari. Lo ha reso noto la Casa Bianca in un rapporto inviato al Congresso, nel quale viene anche previsto che, a fine settembre, per gli Usa il costo totale dell'intervento dovrebbe raggiungere la cifra di 1,1 miliardi di dollari.
Secondo il dossier, 713,6 milioni dollari sarebbero stati investiti direttamente nelle operazioni militari, 1,3 milioni di dollari dal Dipartimento della Difesa e un altro milione stanziato in aiuti umanitari.

Il Congresso fa causa a Obama
Ieri un gruppo "bipartisan" di parlamentari statunitensi ha presentato una causa contro il presidente Obama, sostenendo che le operazioni militari americane in Libia sono "illegali" perché non hanno ottenuto l'approvazione del Congresso. La citazione é firmata dal democratico Dennis Kucinich e da altri nove membri della Camera, fra cui diversi repubblicani, ed è stata depositata presso un tribunale federale di Washington.

Il ruolo americano nelle operazioni a guida Nato é limitato e il presidente non ha bisogno dell'autorizzazione del Congresso per proseguire l'intervento americano in Libia. E' la sintesi di un rapporto inviato ieri dalla Casa Bianca al Congresso, che replica ai malumori espressi da diversi parlamentari secondo cui l'intervento Usa avrebbe dovuto ricevere il sì delle camere.

Nel dossier si legge che le operazioni "non comportano combattimenti sostenuti o scambi di fuoco con forze ostili, né l'uso di truppe di terra statunitensi". Al centro della contesa la legge sui poteri di guerra del 1973, il War Powers Act, secondo il quale il presidente Usa non può muovere guerra per più di due mesi senza un voto del Congresso.

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