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Questo articolo è stato pubblicato il 19 giugno 2011 alle ore 10:32.

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Il luogo dove si pensa (o, meglio, quello che si sceglie per pensare) influenza la filosofia? Si sa che molti, come il Cartesio delle Meditazioni, hanno cercato il silenzio, mentre altri hanno amato scrivere nei caffè, incuranti del frastuono circostante. Alcuni hanno elaborato le loro teorie nella solitudine dei chiostri o «sedendo e mirando» il paesaggio e il cielo stellato, altri fermando e interrogando i conoscenti per le strade di Atene o passeggiando con i propri discepoli nel cortile del Peripato. Per alcuni la città ha costituito l'unico luogo in cui si può filosofare (la campagna e gli alberi – diceva Socrate – non mi insegnano niente), mentre per altri è stata essenziale proprio la lontananza dal convulso attivismo e dalla fretta delle città.
Martin Heidegger appartiene decisamente a questa ultima categoria. A partire dal 1922 si rifugia, infatti, a pensare nella sua modesta baita (Hütte) di Todtnauberg, nella Selva Nera, a circa 1.200 metri d'altezza, tra i prati e ai margini di un bosco di abeti. Da questo ambiente a contatto diretto con la natura sono nate le sue idee e immagini più note: i sentieri interrotti, la radura, la luminosità, l'"aperto".
Non si tratta certo, come da vecchio soldato lo descrisse Ernst Jünger in una sua visita, di «un posto perfetto per piazzare mitragliatrici pesanti», ma di un luogo di sereno raccoglimento e di ricerca di vita semplice. Tra questi «umidi prati silvestri, non spianati» e colmi di «orchidee selvatiche», Heidegger aveva però deluso profondamente un altro visitatore: il poeta Paul Celan, che si era augurato di sentire da lui parole (non pronunciate) di pentimento per la sua adesione al nazionalsocialismo.
Qui, tuttavia, Heidegger non riflette affatto sulle vicende politiche, sulla storia sua e del mondo. È piuttosto concentrato – allo scoccare dell'«ora alta della filosofia» – nell'ascolto silenzioso dei segni, anche minimi, manifestati dalla natura, nel cogliere ciò che sta agli estremi confini dell'ineffabile, dell'«incalcolabile». Solo così si propizia per lui l'avvento delle idee, perché noi «non giungiamo mai ai pensieri. / Essi giungono a noi».
Adorno, filosofo cittadino per eccellenza, abitatore di metropoli come Francoforte, New York e Los Angeles, trova regressivo questo rinchiudersi di Heidegger in un immaginario mondo fuori dalla storia, arcaico, contadino, radicato al suolo e al sangue, rozzamente caratterizzato dal rifiuto della modernità e dalla parallela, irrazionale presunzione di avere accesso, immergendosi nel suo seno, all'«Origine» e all'«Autenticità». Anche se non manca qualche fraintendimento, Adorno è sostanzialmente nel giusto quando mette in rilievo la propensione di Heidegger di abbarbicarsi alla terra e di dipendere dal cielo, di privilegiare cioè il mondo vegetale, quel che cresce per effetto delle piogge e del sole (e, più in generale, tutto quanto è apparentemente spontaneo, comprese le tradizioni locali).
Questa tendenza è, fra l'altro, testimoniata in uno scritto sostanzialmente autobiografico, Il sentiero di campagna. In esso Heidegger ricorda come, da piccolo, dava senso e funzione alla quercia che suo padre aveva abbattuto nel bosco: «Ma i bambini con la corteccia della quercia intagliavano le loro navi, che, equipaggiate di sedili e timone, veleggiavano di primo mattino nel ruscello e nella fontanella della scuola. Nel frattempo, la durezza e il profumo del legno di quercia iniziavano a parlare in modo più intellegibile della lentezza e della costanza con cui l'albero cresce. La quercia stessa diceva che, solo nel crescere, viene fondato ciò che dura e dà frutti: che crescere significa aprirsi alla vastità del cielo e, al tempo stesso, affondare le radici nell'oscurità della terra; che tutto ciò che è solido fiorisce, solo quando l'uomo è, fino in fondo, l'uno e l'altro: predisposto a quanto gli è richiesto dal cielo più elevato e ben protetto nel rifugio della terra che tutto sorregge».
Franco Toscani descrive con efficacia e finezza il soggiornare di Heidegger fra pascoli e boschi, torrenti e rocce. Come anche il filosofo fa nell'ultimo periodo della sua vita, accosta questa scelta di semplicità, di silenzio e di isolamento all'attitudine zen dell'«Amico giapponese» e alla filosofia del Tao. L'affinità con tali concezioni viene da Toscani individuata nella comune rinuncia alla "metafisica", ossia al violento dominio dell'io sul mondo, in quanto anche Heidegger si esercita a rilassare la mente, a farvi il "vuoto", a rinunciare al superfluo per ricominciare, con meraviglia, ad aprirsi al mondo e a sé senza volerli possedere.
In un breve scritto d'occasione per il compleanno del poeta René Char Heidegger si sofferma, nel 1971, sulla tensione che esiste nei quadri di Cézanne tra «l'emergere e il non emergere» delle cose, riferendosi ai suoi ossessivi sforzi, confluiti in circa sessanta quadri, di dipingere la montagna di Sainte-Victoire, quasi volesse immedesimarsi con essa. Opportunamente Toscani paragona perciò il pensiero di Heidegger nei soggiorni di Todtnauberg all'atteggiamento di Li-Po, il grande poeta taoista cinese dell'VIII secolo: «Ci sediamo insieme, la montagna ed io, finché solo la montagna rimane».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Franco Toscani
Luoghi del pensiero. Heidegger a Todtnauberg
Odissea, Milano
pagg. 46, € 10,00
«L'Inizio è ancora. Non è alle nostre spalle, come un evento da lungo tempo passato, ma ci sta di fronte, davanti a noi» Martin Heidegger (Lezioni 1937-38)

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