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Questo articolo è stato pubblicato il 19 giugno 2011 alle ore 10:32.

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A che cosa serve la storia dell'arte? È un gioco erudito, un piacere salottiero, un'evasione dalle miserie del tempo presente? È una disciplina in ritirata, destinata a rifugiarsi nel chiuso di musei e conventicole accademiche, o magari a "scendere verso il popolo" inventandosi ossa di Caravaggio e altre amenità pur di assumere per poche ore l'ambito status di uno scoop giornalistico? Deve provare a nobilitarsi travestendosi da teoria generale di qualcosa e distaccandosi da quelli che ne furono gli oggetti concreti (quadri, statue, disegni...), o invece immergersi nello specifico, sceverare le sempre diverse ragioni di ogni artista, di ogni committente, di ogni tela, e provare a intenderle e a raccontarle? Se lo chiese Sandra Pinto, quando promosse Gli storici dell'arte e la peste (Electa, 2006), collettiva presa di coscienza, o psicodramma, in cui una quarantina di storici dell'arte di ogni età si chiedevano come mai la disciplina, pur affinando metodi e moltiplicando scoperte, abbia perso peso, autorevolezza, visibilità e potere nello scenario della pubblica opinione. Se lo è chiesto più di recente Tomaso Montanari, in un saggio acuminato, A cosa serve Michelangelo (Einaudi, 2011) in cui mette spietatamente a nudo i meccanismi per cui la storia dell'arte può essere asservita al potere politico, può diventare «una escort di lusso della vita pubblica». Ma fra la marginalizzazione (la "peste" che fa degli storici dell'arte degli intoccabili) e il compromesso con il potere politico non c'è proprio nessun'altra strada?
Una risposta intelligente, colta e lungimirante viene da un ministro della Cultura. Naturalmente, in Francia. Nel discorso pronunciato in occasione dell'inaugurazione del Festival de l'Histoire de l'Art Fontainebleau il 28 maggio 2011, di cui qui accanto si pubblicano ampi estratti, Frédéric Mitterrand, divenuto ministro dopo la direzione di Villa Medici a Roma, propone una chiave di lettura della storia dell'arte e una ricetta per (ri)donarle la centralità che merita nella vita civile. Sua stella polare sono le riflessioni di André Chastel, di cui molti – anche in Italia – ricordano le appassionate battaglie, anche su «Le Monde», per introdurre nelle scuole francesi, su modello dell'Italia, l'insegnamento di storia dell'arte: cosa ora finalmente avvenuta, e «a tutti i livelli scolastici», una vera e propria «rivoluzione educativa» giunta ormai «a un punto di non ritorno». Se questo è stato possibile, è perché la Francia, dice Mitterrand, ha ben chiaro il ruolo della storia dell'arte, che non è solo disciplinare e accademico, ma sociale e civile. Essa deve rispondere a una domanda di cultura, quella che viene dal pubblico delle mostre e dei musei, «sempre più in cerca di spiegazioni e di senso». Deve rispondere alle sfide del nostro tempo, «che ha assunto l'immagine – compresa l'immagine del sé – a feticcio», e con il proprio strumentario intellettuale deve «dare un senso al divenire collettivo (...), rendere più intelligibile il nostro tempo», educando lo sguardo dei cittadini, dalla scuola all'età adulta. «Oggi più di ieri, la strada per un'educazione alla cultura richiede di far comprendere la costruzione di un'immagine, cogliere i suoi risvolti sociali, capire che l'immagine non è la realtà ma la costruzione di un discorso». Perciò «l'arte è anche un apprendimento alla conquista di se stessi e del tempo». La storia dell'arte, insomma, regala conoscenza, regala libertà (anche nel leggere le immagini del potere), regala uguaglianza: purché le sue conoscenze siano condivise.
Questo monito dovrebbe essere un modello per l'Europa. Senza dimenticarne un importantissimo risvolto: il rapporto fra le due funzioni complementari dello storico dell'arte, il «desiderio di capire» e la «passione di trasmettere». Anche in questo, le misurate parole del ministro Mitterrand fanno omaggio all'Italia, che nella sua storia «ha saputo distinguersi nella repubblica dei saperi grazie alla forza delle convinzioni dei suoi storici dell'arte, di coloro che hanno saputo riflettere sul suo patrimonio». Il richiamo alla cultura della tutela e all'idea di patrimoine, formatasi tra Francia e Italia a cavallo fra Rivoluzione e Restaurazione, deve far riflettere: dovere civile degli storici dell'arte è impegnarsi nella società, nei temi della conservazione del patrimonio e non solo nella ricerca storico-artistica. Insomma, per non sentirsi "appestati" (autoemarginandosi), gli storici dell'arte devono convincersi che la disciplina, secondo le parole di Chastel, può anzi deve avere un ruolo centrale nella polis. Purché non manchi al dovere di «favorire una conoscenza, una presa di coscienza storica che cambi le prospettive del presente». Di giocare le proprie carte, senza compromessi e con rigore, sul tavolo che più conta, perché costruisce il futuro: quello dell'oggi.
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