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Questo articolo è stato pubblicato il 23 giugno 2011 alle ore 06:37.

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VENEZIA. Dal nostro inviato
In Italia, per l'Eurostat, un addetto nell'industria dell'auto viene pagato in media 49.500 euro lordi all'anno. In Germania, 62.900 euro. Nella Repubblica Ceca 16.200 euro e in Romania 7mila euro. Secondo l'Ocse, rispetto all'Italia gli stipendi in Ungheria sono più bassi del 70% e in Corea del 30 per cento.
Queste asimmetrie, però, si stemperano negli equilibri di un settore in cui il costo del lavoro non incide più dell'8% sul costo finale. Una contraddizione, incubata nella globalizzazione degli ultimi 15 anni, che mette alla prova le relazioni industriali nate nel Novecento, quando nella meccanica il costo del lavoro aveva un peso ben maggiore e i sindacati erano abituati a operare nella ristretta cinta daziaria nazionale. Ieri a Cà Foscari si sono date appuntamento due scuole italiane nello studio dell'auto: quella veneziana, che ha un taglio più organizzativo, e quella torinese, dalla cifra decisamente industrialista. L'occasione è stata la presentazione del volume L'auto dopo la crisi (Francesco Brioschi Editore), curato da Francesco Zirpoli e da Giuseppe Volpato. Nel seminario si è discusso di tecnologie, mercati, prodotti e lavoro. Il mix di questi elementi è stato ricomposto, negli ultimi quindici anni, dall'apertura dei mercati e dalla globalizzazione. In una maniera nuova, però. «Oggi - sottolinea Zirpoli - il costo del lavoro non è più un fattore decisivo nella scelta di costruire uno stabilimento in questo o in quel paese. Influiscono gli incentivi e i sostegni statali. La crisi, con l'intervento dell'amministrazione americana nel salvataggio di Chrysler e di General Motors ma anche con i fondi pubblici francesi, ha reso evidente come la mano invisibile, nell'auto, conti poco. Spesso, nella determinazione della struttura manifatturiera, decide la mano statale». I differenziali nel costo del lavoro hanno un impatto scarso. I termini del problema, però, vanno ribaltati. Quali sono gli effetti sistemici irradiati dalla perdita del lavoro in un paese? «Smettere di produrre auto - spiega Zirpoli - non equivale a smettere di produrre telefonini. L'auto resta un grande diffusore di tecnologie. Se perdi la capacità di fabbricare macchine, perdi la capacità di fare innovazione». Un problema valido ovunque, ma ancora più importante in un paese come l'Italia che ha ormai una sola casa automobilistica e che produce ogni anno 600mila nuovi veicoli, un decimo della Germania.
«La crisi - ricorda Volpato - ha mostrato le diverse filosofie pubbliche di intervento, a soccorso dei produttori, ma anche dei componentisti e dei carrozzieri». La Francia colbertista si è mossa a tutto a campo. In particolare, ha aperto i cordoni della borsa (pubblica) per l'innovazione di prodotto. La Germania ha privilegiato il mantenimento nel ciclo dell'economia attiva degli addetti di aziende in crisi, tramite il loro passaggio nelle società di occupazione chiamate a smaltire gli eccessi di lavoro dei gruppi sani. L'Italia ha usato il vecchio strumento della cassa integrazione.
In ogni caso, il lavoro resta un anello insieme molto debole e molto forte nella catena dell'automotive. Con, in più, l'incognita delle nuove alimentazioni ecologiche. «Gli esiti di questa riconfigurazione non sono ancora prevedibili e la pressione competitiva fra le case automobilistiche è tale che nessuno sa ancora cosa possa capitare, in termini occupazionali, ai singoli paesi», riflette Andrea Stocchetti, economista che studia la sostenibilità nell'automotive. Anche questa è una nuova sfida per capitale e lavoro, imprese e sindacati, rappresentanza e relazioni industriali.
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