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Questo articolo è stato pubblicato il 26 giugno 2011 alle ore 08:10.

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Escono dall'assemblea straordinaria 2011 accolti da un sole che acceca i soci, dipendenti (e non) della Banca Popolare di Milano. In 2.093 hanno appena votato no all'aumento da tre a cinque dei voti per delega. I favorevoli sono stati 1.731, 11 gli astenuti. Un voto che suona come un perentorio «giù le mani dalla banca» che i soci dipendenti hanno voluto riecheggiasse forte nella sala della Fiera Milano City.

L'assise ha visto i soci intervenire con circa 800 deleghe: poche. Un segnale che in sala è stato interpretato nel modo corretto ancor prima della proclamazione del risultato. «Non passa. Se non riescono neppure a portare le tre deleghe attuali, come pretendono di portarne cinque? È anche complesso tecnicamente» dice lapidario un membro dell'ex Organo di rappresentanza (ora Associazione amici della Bpm), considerato il «governo ombra» della banca.

In realtà quello delle deleghe è soltanto uno degli argomenti all'ordine del giorno. Ma, per chi lavora in banca, è di gran lunga il più importante. Forse persino più importante dell'aumento di capitale monstre da 1,2 miliardi di euro (due volte la capitalizzazione di Borsa di 622 milioni) approvato, quello sì, all'unanimità.

Superati i Gmen di un servizio d'ordine dai modi più acconci a un derby Brescia-Atalanta che all'assemblea di una società quotata, si riesce a raggiungere la sala dell'assise. Qui, in presa diretta, captando gli umori dei partecipanti se ne comprendono anche le ragioni.

Poco distante dalla sala del voto, in un capannello di dipendenti, un funzionario, ascoltato da tutti con reverenza, spiega: «Quello dell'aumento delle deleghe non è un problema. È un simbolo: è il simbolo di un accerchiamento che si vuole spezzare, è una manovra tecnica e politica, che vuole tentare di cambiare i rapporti di forza all'interno della banca con finalità tutt'altro che chiare».

Neppure il fatto che a chiederlo a gran voce sia stata Anna Maria Tarantola, vicedirettore generale della Banca d'Italia, membro del direttorio, che nell'audizione al Senato dei giorni scorsi ha ribadito l'esigenza di ampliare il numero di voti per testa, sembra convincere. «La questione delle deleghe mi chiede? – risponde un procuratore di zona della banca – Un falso ideologico, un cavallo di Troia per occupare la banca. Abbiamo difeso un principio e abbiamo dato un segnale preciso: i dipendenti non ci stanno alla svendita della banca. Questa è un'azienda seria, con tutti i limiti delle altre aziende, sia chiaro, ma assolutamente unica per l'esempio di democrazia economica che offre». Poco distante l'attore Enrico Beruschi, ex bancario e da sempre presente alle assemblee Bpm (e favorevole all'aumento delle deleghe) scherza con la più giovane di tre dipendenti: «Nel settembre del 1972 lavoravo al Credito Italiano e avevo lo stipendio più basso del nord Italia perché mi hanno assunto che ancora non avevo 19 anni. Adesso voi entrate in banca e prendete un sacco di soldi e non sapete fare niente. Perché? Perché in banca comandate voi». Poco distanti tre soci, che non lavorano in banca si chiedono: «Il sistema di voto dovrebbe funzionare come nei condomini: viene chi è interessato a venire e con le deleghe di chi sarebbe interessato ma non può essere presente. Così deve funzionare una democrazia societaria».

Poco importa ai votanti di ieri che per modificare la normativa sulle banche popolari quotate siano stati stesi, in sette anni, almeno due disegni di legge bipartisan quasi identici: uno di Giorgio Jannone (Pdl) e l'altro di Roberto Pinza (ex parlamentare della Margherita).

«Guardi, se posso essere chiaro – dice al cronista un quadro, che (come tutti gli intervistati) impone l'anonimato come condizione di contatto – questa della contendibiltà in Borsa delle popolari quotate è un argomento capzioso. In realtà la sensazione è che ci siano attori che hanno individuato nella Bpm un soggetto appetibile, sia per numero di sportelli, sia per zona, sia per cultura aziendale e se la vogliono portare via spendendo il meno possibile. Questo è un progetto che passa anche attraverso la stampa che ingigantisce problematiche che non sono realistiche, come per esempio, il ventilato commissariamento della banca. Noi non sappiamo che cosa abbia scritto la Vigilanza d'Italia nella parte «oscurata» del rapporto ispettivo. Ma conosciamo come si lavora in banca e ci sembra impossibile che si possa arrivare a tanto».

E un collega si aggiunge alla conversazione: «Abbiamo già visto che cosa succede ai giganti del credito, magari anche a quelli che avrebbero interesse a mettere le mani su di noi, che non dimentichiamolo, abbiamo altre due insegne forti: la Banca di Legnano e la Cassa di Risparmio di Alessandria. Tutte zone buone, ad alta redditività e ad alta marginalità: bocconi ghiotti per i giganti. Però non si tiene conto del fatto che questa è una banca che lavora sul territorio e ci sta fortemente radicata. Se non ci fossimo noi resterebbero solo le banche di credito cooperativo, che fanno un lavoro straordinario, ma non con la nostra potenza di fuoco».

Si sciolgono i capannelli , si salutano i colleghi e si va a casa. Consapevoli che chi doveva capire ha capito.

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