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Questo articolo è stato pubblicato il 28 giugno 2011 alle ore 08:00.

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CHIOMONTE. Ognuno si tiene le sue idee. Tavoli distinti. Gruppetti separati. Poliziotti e carabinieri da un lato. Manifestanti dall'altro. Poca voglia di parlare. Ottanta feriti. Poteva andare peggio.
All'albergo ristorante Rocciamelone, gestito a Chiomonte da 32 anni dalla famiglia Cuttica, la macchina del caffè non si ferma mai. Pure dopo lo sgombero. Cristina, la giovane e prudente figlia dei proprietari («non mi chieda se sono favorevole o no all'alta velocità»), racconta di avere imbottito 300 panini.

Mangiare e bere lenisce la paura e lo stress. In questa guerra economica e civile, l'interesse nazionale non coincide sempre con le esigenze della comunità locale e le preghiere notturne si alternano alle manganellate inferte alla mattina presto quando i blocchi vengono forzati. E, allora, tutti si rivolgono a Cristina per cinque minuti di requie.
Lunedì, prima di scendere in bassa valle a organizzare presidi che bloccano il traffico e a pensare alle contromosse mediatiche, molti ripassano al Rocciamelone. Domenica, poche ore prima dello scontro, erano tutti lì ai tavoli. «Centoventi coperti, quando di solito ne facciamo trenta a sera. Una trentina di persone in divisa e 60 No-Tav. Tutti pacifici. E poi i giornalisti, che mi hanno pure occupato tutte le undici stanze», dice Cristina.

Nella commedia umana dell'Alta velocità, su queste montagne piemontesi, emergono le dimensioni più contraddittorie e si misurano gli interessi più diversi. Prima di tutto, questa è una storia di preti. Come Don Gianluca Popolla, il parroco di Chiomonte, che ti dice «non rilascio dichiarazioni ai giornali». E come il sacerdote Michele Dosio, l'animatore dell'associazione Cattolici per la vita della Valle che prima racconta della preghiera comune di domenica notte di fronte al fuoco e poi aggiunge: «Le forze dell'ordine hanno usato molti fumogeni. I cattolici del movimento No Tav sono per la lotta non violenta. E' dagli anni Settanta che ci occupiamo di queste cose. Sono stato allievo di don Giuseppe Viglongo, uno dei punti di riferimento del pacifismo italiano. Sappiamo come fare».

Dunque, non ci sono soltanto i duri e puri di Radio Black Out, centri sociali e musica dei Rage Against the Machine. Anzi, fin dalla scorsa settimana il blocco cattolico torinese di sinistra ha ridotto la componente antagonista, anche se bisognerà vedere cosa succederà nei prossimi giorni negli equilibri interni al popolo dei No-Tav, mutevole e emotivo. «In ogni caso - dice Diego Siville, presidente del circolo ricreativo Ramats, dell'omonima borgata di Chiomonte - questa militarizzazione è molto brutta».
Il circolo Ramats ha cento iscritti, più o meno come l'intera frazione. La bocciofila, il ballo liscio, le partite a carte. Bruxelles da qui è lontanissima.

Parigi anche. Roma pure. «Non si doveva arrivare a questo scontro fisico - dice Siville - anche se, da quello che si è capito in paese, poteva finire peggio. L'orientamento dei soci del circolo? Non esiste una prevalenza del sì o del no all'alta velocità». Non è un caso. In alta valle da sempre ha prevalso un maggiore attendismo, mentre l'ostilità ha preso corpo soprattutto in bassa valle.

A favore dell'opera, e infastidito dalla robusta opposizione ai lavori organizzata dai No-Tav, è Paolo Tournour, la cui famiglia ha dal 1969 una ditta di movimento terra. «No, non lavoro per il cantiere. Gravito su Torino da diversi anni. Non mi piacciono, questi che dicono di amare la natura. Secondo me, non sanno neanche bene perché si trovano a Chiomonte», afferma Tournour, che oltre all'attività da piccolo imprenditore ha ancora qualche bosco su, verso il Frais. Tournour considera l'alta velocità una occasione di sviluppo. «Insomma - riflette - qui bisogna andare avanti. Non indietro. La Valsusa è diventata povera. Anche le cave procedono a singhiozzo. Se le cose vengono fatte a regola d'arte, perché rinunciare all'alta velocità?».

In ballo ci sono i primi fondi comunitari, che rischiano di svanire. Poi, ci sono i miliardi di un investimento che dovrebbe collegare la Francia e l'Italia ai mercati dell'Est Europa. «Sarà anche vero che ci sono tutti questi soldi - ribatte Roberto Comino, impegnato nell'edilizia - intanto, però, oggi, io inizio a perdere i miei, di soldi. Lo sapevo che finiva così. Con la valle bloccata. Ho fermi tre camion carichi. E, se ritardo con i lavori, le penali le pago io, mica i No-Tav». Comino è abbastanza pessimista. «Boh, anche se i cantieri proseguono…nessuno, di noi piccoli imprenditori, è stato coinvolto. E magari va anche bene così, l'ultimo miracolo qui in Valsusa dovevano essere le olimpiadi invernali: sa quanti miei colleghi sono saltati come birilli, perché nessuno li ha pagati?».

Comino è amaro. Chissà se, alla fine, si è un po' addolcito l'umore nero dell'artigiano sul camioncino Tata bianco carico di laterizi che, al mattino, prima di fare inversione di marcia a un blocco poco prima di Bussoleno, ha ricevuto una fetta di torta da una signora di sessant'anni, rosario in vista e faccia sorridente, mentre intorno a loro bivaccavano disordinatamente ragazzi con dreadlocks e magliette rosse con l'effige del Che.

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