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Questo articolo è stato pubblicato il 27 giugno 2011 alle ore 11:42.

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L'aveva detto l'asinello Andrés, il polpo Paul argentino: la vedo male per il River Plate, che era chiamato a fare bene nella gara più importante dei suoi 110 anni di storia. Sul piatto, la permanza nel massimo campionato argentino, roba che per chi mastica di calcio sudamericano è quasi da fantascienza. Ma come, il River Plate, la squadra più titolata del calcio della República Argentina con 33 titoli nazionali, 2 Coppe Libertadores, 1 Coppa Intercontinentale, 1 Coppa Interamericana e 1 Supercoppa sudamericana in bacheca che finisce nella serie B argentina?

Proprio così, i 70 mila tifosi che hanno preso d'assalto il Monumental di Buenos Aires per appoggiare la propria squadra del cuore nella partita di ritorno contro il Belgrano, semisconosciuta enclave di calciatori che sognava da tempo di ritornare nella Primera Division, non potevano credere che il River uscisse sconfitto dal confronto che valeva come uno scudetto. Perché il River è il River, a Buenos Aires la fascia rossa sullo sfondo bianco è ragione di credo e di speranza. Chi non sta dalla parte del River è un nemico da trattare con diffidenza e sospetto. Sei del Boca Juniors di Maradona? Non mettere mai piede nella curva del River, peggio di andare di notte a cento all'ora in un bosco di faggi.

Due a zero all'andata, uno a uno a Buenos Aires. Il Belgrano di Cordoba si guadagna la promozione a scapito del River e della sua leggenda. E dire che la società del presidente Passarella, ex calciatore viola di talento negli anni Ottanta, era andata vicino a centrare il risultato che avrebbe salvato la stagione e probabilmente l'auto del suo massimo dirigente. Uno a zero al sesto minuto del primo tempo, gol di Pavone per la squadra di casa, pubblico in delirio, speranza che cresce e si fa largo tra i sostenitori dei Millonarios, così come vengono, meglio, venivano definiti i giocatori del River prima della batosta che ne cambierà la storia. Poi, arriva il pari e comincia il lutto. Inutile l'assalto finale dei bianchi di Buenos Aires. Che alla fine dell'incontro si lasciano andare ad un pianto senza fine in mezzo al campo, accompagnati da un grido di disperazione generale che arriva dagli spalti.

Quarantatre feriti, di cui una trentina tra gli agenti delle forze dell'ordine intervenuti a fine gara per sedare i primi assalti dei tifosi che al pianto hanno preferito la violenza. Questo il primo bilancio degli scontri che sono durati per tutta la notte nelle strade della capitale argentina. È un dramma sociale prima che calcistico. Perché in Argentina il pallone è un mezzo di rivalsa politica e di orgoglio fideistico. Il River Plate in serie B non rappresenta soltanto la sconfitta di una società di calcio di fronte al proprio pubblico. Di più, è ragione di sconforto e di rabbia per tutti coloro che nei Millonarios vedevano un punto imprescindibile di riferimento della propria esistenza.

Con il River in B, si apre la caccia alle sue stelle. Che rispondono ai nomi di Erik Lamela, Diego Buonanotte e Rogelio Funes Mori. Tutti giovani, tutti bravi, tutti richiesti dai club europei che vorrebbero far di loro giocatori di livello internazionale. Il più desiderato è senza dubbio Lamela, che sembra essere ad un passo dal Napoli di De Laurentiis, dopo essere stato avvicinato nelle settimane scorsa alla Roma.

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