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Questo articolo è stato pubblicato il 28 giugno 2011 alle ore 06:41.

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MILANO
C'era «un sistema strutturato per fornire ragazze disponibili a prostituirsi», un sistema che serviva «per compiacere il presidente del Consiglio attraverso la fisicità della donna e la mortificazione della dignità femminile». I pm Pietro Forno e Antonio Sangermano parlano per quaranta minuti davanti al giudice per l'udienza preliminare Maria Grazia Domanico e motivano con queste parole la richiesta di rinvio a giudizio per Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti, accusati di induzione e favoreggiamento della prostituzione di 32 ragazze maggiorenni e di una minorenne, Ruby-Karima El Marhoug.
I tre indagati in aula non ci sono: l'impresario dei vip è in carcere a Opera, coinvolto nella bancarotta fraudolenta della sua società, la Lm Management, il direttore del Tg4 e la consigliera regionale del Pdl hanno preferito rimanere lontani dal palazzo di giustizia per evitare l'assedio di fotografi e telecamere.
L'atto di accusa di Forno e Sangermano è nel linguaggio forbito dei tecnicismi giuridici, ma gli affondi non tardano. Il «sistema» finalizzato alla prostituzione – sostengono i pm – era articolato «in tre luoghi distinti e funzionali tra loro», e ognuno degli indagati aveva una missione precisa, con un compito definito per «compiacere» Silvio Berlusconi. Lele Mora è l'«arruolatore»: è lui che procaccia le ragazze e le fa entrare nel giro delle serate di Arcore. Emilio Fede è il «fidelizzatore»: il direttore del Tg4 – dicono Forno e Sangermano – valutava se le ragazze erano affidabili, ne soppesava la riservatezza e la disponibilità sessuale. Le parole più nette sono però per Nicole Minetti. L'ex show girl viene definita «l'amministratrice di un bordello»: a lei era demandato il compito di occuparsi della logistica delle ragazze che partecipavano alle feste nella residenza di Berlusconi. È la stessa Minetti, aggiungono sempre i magistrati, a essersi attribuita questa veste quando durante una telefonata alla sua amica Melania T. afferma testualmente: «E poi ci sono io che faccio quello che faccio».
Prima dell'intervento dei pm, tocca al gup pronunciarsi sulla richiesta di costituzione di parte civile presentata dagli avvocati di Ambra Battilana e Chiara Danese, le due ragazze presenti ad Arcore il 22 agosto 2010 e che in alcune deposizioni spontanee hanno descritto ai magistrati il rito del "bunga bunga". Per i loro legali, Patrizia Bugnano e Stefano Castrale, le due ex Miss Piemonte sarebbero state danneggiate dalla loro partecipazione alla serata di Arcore: avrebbero subito danni di immagine e patrimoniali con la perdita di chance lavorative per essere state considerate delle escort. Nell'ordinanza nella quale ammette la costituzione delle parti civili, il gup spiega che il reato di induzione e favoreggiamento della prostituzione previsto dalla legge Merlin si è evoluto e oggi non può essere considerato esclusivamente contro la morale ma può danneggiare anche persone fisiche. Ad ascoltare il giudice, in aula, c'è solo Chiara Danese, 19 anni, camicia rosa, jeans e unghie laccate di rosso. Appare timida e impacciata, e resta in silenzio: «Sono contenta, speriamo vada tutto bene», sono le uniche parole che escono dalla sua bocca.
L'udienza viene aggiornata all'11 luglio, quando toccherà ai difensori di Mora, Fede e Minetti presentare le loro eccezioni. Il 3 ottobre, invece, verrà conferito a un perito l'incarico di trascrivere le centinaia di intercettazioni che sono allegate agli atti dell'inchiesta.
Nel frattempo il tam tam mediatico si è già messo in moto e il riferimento al «bordello» scatena reazioni dure nel mondo politico romano vicino al governo. L'avvocato di Berlusconi, Niccolò Ghedini, bolla la ricostruzione dei pm come totalmente destituita di fondamento, la definisce «erronea» e assicura «che non resisterà al vaglio di un giudice super partes». Luca Giuliante, legale di Lele Mora, getta invece acqua sul fuoco: non condivide, naturalmente, l'atto d'accusa di Forno e Sangermano, ma definisce le parole dei due pm come sobrie e tecnicamente corrette.
La polemica la chiude in serata lo stesso procuratore aggiunto Forno. Il pm precisa di non aver mai affermato che Arcore era un bordello: «Il termine – chiosa – è stato utilizzato come riferimento storico alla divisione dei compiti prevista dalla legge Merlin che, come noto, prevedeva la soppressione delle case chiuse».
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